Diretto e interpretato da Gaetano Bruno e Francesco Villano
Scene Igor Scalisi Palminteri
Luci Cristian Zucaro
Produzione compagnia Bruno/Villano
Non raccogliere le stelle per portarle sopra al monte
Sopra al monte non c’è luce, non c’è luce e tutto tace
Sto cercando mio fratello che l’ho perso e non ho pace
Stai attento a quel che cerchi che altrimenti ti dispiace.
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Un cerchio di bianchi frutti, recinto sul quale un primordiale albero rovesciato bianco, quasi come incantato, è calato come traccia chiarissima del tempo mitico dell’Eden. La scena per il resto è vuota. Un faro centrale illumina inizialmente il palcoscenico spoglio mentre due personaggi vestiti similmente restano in quello stesso cerchio. Uno dei due si sveglia e con gesti e giochi cerca di destare anche l’altro. La percezione dell’era biblica è rimandata attraverso un linguaggio animale, diremmo quasi antropomorfo che accenna alla fase preistorica-evolutiva dell’uomo. Da questa parte che sarà spiegata in seguito riusciamo però a comprendere le spasmodica ricerca di una reazione similare al proprio gesto da parte dell’altro e l’impressione che l’uno voglia necessariamente speculare all’altro.
Il recinto è un cerchio, definisce un ciclo che è la forma stessa dello spettacolo in questione. Caino e Abele sono un unico corpo all’inizio, poi subiscono una separazione per poi ritrovarsi simbolicamente di nuovo all’interno della circonferenza. È importante comprenderlo giacché Genesiquattrouno – Caino e Abele, storia di una fratellanza deviata non è la semplice fabula dell’episodio veterotestamentario, è piuttosto la rimozione del fratricidio e della coscienza che rivive in un tempo e luogo non più soltanto mitico ma nettamente simbolico cosicché ad un tratto il simbiotico procedere di entrambi s’interrompe; fuori quel cerchio i due acquistano lentamente la capacità di un linguaggio umano, comunicano cioè non più a gesti, ma con le parole. Eppure, la parola è intesa non come condivisione ma come risultato di una separazione già avvenuta. Essi difatti ripetono frasi che sembrano dichiarazioni d’amore ma che invece – come apprenderemo successivamente – sono le preghiere rese a Dio nell’atto di donare la parte migliore del loro lavoro. Nella Bibbia si legge che Abele venne predestinato alle greggi e Caino ai campi, dopo del tempo donarono al Signore i frutti della loro fatica ma egli non gradì l’offerta del secondo che insinuato dalla gelosia uccise il fratello. Dunque, le preghiere che inizialmente cantilenano in realtà sono il preambolo di ciò che sarà il loro destino già di per sé esauritosi in un tempo antecedente a questo che si consuma davanti ai nostri occhi in cui Caino e Abele sono l’uno dinanzi all’altro. Essi non sanno riconoscersi ancora, tuttavia la reciproca presenza è necessaria per autoaffermarsi e per non annegare in un’inquietante solitudine. L’attesa dell’altro all’ultimo giorno di primavera si trasforma così in una dilatazione di un tempo interiore entro il quale lo spazio pare avere un’estensione infinita, troppo per accogliere quelle due sole forme di vita umana. L’estraniamento col quale vengono costruiti i dialoghi ci conduce alla riscoperta di un’alterità intima in cui risiedono amore incondizionato ed odio al contempo. Quando avviene la scissione delle loro persone coincidente con la destinazione a due lavori differenti, l’uno scopre nell’altro un diverso; l’unione quasi fetale è sfaldata, il “patto” che simbolicamente fu fatto ancora nel loro cerchio, di andare via insieme, va in frantumi, le strade si separano e ciascuno deve vedersela da solo col mondo vuoto raccomandandosi ad un dio che per Caino pare invisibile. E dunque per qual motivo sottrarre le primizie del raccolto per lui? Il non gradimento nei confronti di Caino da parte del Signore deriva proprio da ciò inteso come atto di tracotanza e di rivendicazione della propria persona, ma è interessante notare come, in questo lavoro, Dio si delinei terzo incomodo che si frappone all’armonia della relazione fraterna, e causa remota del fratricidio. Ecco, il ritorno a quel recinto, la grotta nella quale si consuma l’atto, emblema di un’unità relazionale, dell’era dell’infanzia ed ora della separazione più estrema. Quel che è compiuto è compiuto, la conclusione disvela in realtà l’inizio; la presenza dell’altro non è nient’altro che il pensiero reiterato della propria colpa.
Gaetano Bruno e Francesco Villano mettono in scena uno spettacolo interessante basato su un’autentica ricerca dell’altro entro la propria coscienza che il mito biblico trasfigura in maniera emblematica. Ci sono alcuni momenti in cui il ritmo rallenta, soprattutto verso la fine quando vi si coglie una parentesi più prolissa e una maggiore staticità degli interpreti. Colpisce particolarmente come l’allestimento scenico e la drammaturgia stessa siano pervasi da una forte espressione concettuale che veicola le essenze dei singoli personaggi del capitolo 4 della Genesi; il male e il bene appaiono sfumature pregnanti di un rapporto solo, unico ed esclusivo e la dicotomia ne è incarnata dai gesti, dallo spazio che i due riescono ad acquisire col proprio corpo sull’assito e dalle parole provocatorie che si rimandano l’uno con l’altro. Uno spettacolo che non tocca tanto le corde emotive quanto mira a una particolare attenzione della nostra mente spinta ad assemblare i pezzi di una partitura testuale per alcuni versi complessa. Uscendo dalla sala, risuonano in mente le parole di Grotowski sulla necessità di rinvenire nel mito (inteso ovviamente come parabola sacra) una riflessione pertinente a ciascuna individualità ed un confronto critico in un tempo – quello contemporaneo – in cui non è più destinato ad essere anima univoca della collettività. Risuonano proprio perché Genesiquattrouno lo ripensa astratto dalla tradizione canonica ed universale e filtrato attraverso istanze psicologiche ed analitiche, come suggerisce la stessa espressione del sottotitolo fratellanza deviata. Vale la pena, infine, ricordare che lo spettacolo rientra nel progetto IN-BOX, un sistema distributivo alternativo che sostiene piccole o giovani compagnie acquistandone le repliche relative a spettacoli già prodotti e dando la possibilità di farli circuitare, neutralizzando la corsa a continui nuovi debutti. In questo modo possiamo rivalutare l’idea di “repertorio” come condizione più democratica che riguarda anche realtà emergenti spesso e volentieri schiacciare da quello ingombrante di stratosferiche compagnie.