Vesti la giubba dai Pagliacci e Adriano Celentano: anche questo primo solo accostamento musicale lascia intuire l’inedita cifra stilistica del Don Giovanni diretto e interpretato da Filippo Timi che rielabora, attualizzandolo, il personaggio del più celebre libertino di tutti i tempi. Attenzione però: dimenticate Molière, ma tenere ben presente Mozart-Da Ponte perché è proprio quel Don Giovanni che Timi intende stravolgere all’insegna della rivendicazione assoluta della libertà intellettuale. Conoscerlo bene aiuta certo a cogliere tutto il lavoro di disfacimento, a divertirsi e a rendersi conto di come la corte di personaggi che gravitano intorno a Don Giovanni (un po’ burattini, un po’ automi) vengano in qualche modo esasperati. A Timi l’eccesso piace e ci sguazza anche con una certa facilità e scioltezza: ecco allora che Leporello diventa un compito servitore in preziosi abiti verdi, che Donna Elvira, sedotta e abbandonata arrivi in scena con verve vendicativa brandendo un coltellaccio in preda a crisi isteriche, che Donna Anna dopo la morte del padre si trasformi in una sorta di seduttrice di pelle vestita con accento tedesco e che schiavizzi un piagnucolante e giovanissimo Don Ottavio che Zerlina diventi una contadinella che parla solo in dialetto completamente senza cervello.
Barocco, eccessivo, irriverente, carico di humour nero, in perenne bilico fra contaminazione, omaggi (anche cinematografici) e suggestioni, ma a tratti geniale: tutto rientra in un progetto preciso nel Don Giovanni di Timi, anche gli interminabili e apparentemente inutili nonsense linguistici che altro non sono se non l’esemplificazione moderna delle indiscutibili capacità affabulatorie di Don Giovanni che si beffa del mondo, consapevole del suo destino.
“Don Giovanni conosce la sua fine, è solo questione di rincorsa. Don Giovanni è l’umanità finalmente priva di quelle morali colpevoli dell’assurdo destino verso cui stiamo precipitando – dice Filippo Timi – E la colpa non è certo della storia, o di tutti quei Cristi che c’hanno professato amore, ma la nostra: la fame di potere insita nell’uomo, nessuno escluso, la fame di resistere, di ingannarsi piuttosto che sopravvivere. Don Giovanni è un’intera Storia dell’umanità che muore”.
Insomma lo spettacolo può anche non piacere e può anche disturbare, ma resta da vedere fra abbacinanti luci (di Gigi Saccomandi) in un’ininterrotta contaminazione visiva (fra video di Youtube, il cinema o gli affreschi), musicale, ritmica e di registro. Esagerati, ma estremamente necessari sono i costumi di Fabio Zambernardi (in collaborazione con Lawrence Steele): appaiono quasi sproporzionati, enormi, ingombranti in una contaminazione bizzarra fra i secoli e le icone diverse, fra ampie gonne dell’Ottocento (l’abito rosso di pelliccia di Donna Elvira) e tessuti diversi (la pelle e il tulle romantico di Donna Anna, l’effetto ceramica nell’abito di nozze di Zerlina), gli abiti settecenteschi e il sontuoso mantello di fiori ricamati di Don Giovanni o i pantaloni-pelliccia di Leporello. Uno spettacolo all’insegna della contaminazione e della sorpresa a tutti i costi, fra non pochi eccessi (pure un nudo integrale maschile) qualche volgarità gratuita, ma non poche trovate interessanti: insomma viva l’eccesso e viva il barocco (ma anche il kitsch) in uno spettacolo che a tratti poteva essere snellito perché il messaggio d’altra parte è più che chiaro e ampiamente annunciato fin dall’inizio. Vivere è un abuso, mai un diritto. In scena al Teatro Argentina di Roma fino al 15 marzo.