Quando si descrive la città di Istanbul, la si paragona ad una grande nave, sul cui ponte passeggiano e si alternano da secoli, passeggeri di differente provenienza, cultura, religione, destino, ognuno con i propri sogni e le proprie speranze; uomini che traghettano per un pò in un mare difficile e infausto e che poi ripartono, lasciando posto ad altri. Nella casa della famiglia Kazanci, troviamo incroci di storie e di vita, come se fosse una piccola rappresentazione della città turca, un microcosmo, di donne con vissuti diversi e difficili, ma legate dal vincolo indissolubile del sangue.
In questa storia inter-etnica, ricca di calore, di colore, di suoni, profumi ed odori, i personaggi si raccontano in terza persona, ed Angelo Savelli, regista dell’opera (tratta dal romanzo della scrittrice turca Elif Shafak), riesce a giostrarli perfettamente, potendo anche contare anche sulla grande esperienza, affiatamento e familiarità tra Serra Yilmaz, Valentina Chico e Riccardo Naldini, ormai da 11 anni più che compagni, quasi complici, nello spettacolo di grande successo “L’Ultimo Harem”.
Serra Yilmaz, con la sua interpretazione ironica ed appassionata, ci conduce per mano all’interno dei segreti della sua famiglia: lei, la mistica Banu, primogenita di cinque figli, è conosciuta in tutta la città come una grande chiaroveggente, colei che scruta ma che resta imperscrutabile, consigliata da due jinn, uno buono ed uno cattivo, che chiama con i soprannomi “Sig. Dolce” e “Sig. Amaro”, complici necessari alla vita di ogni uomo, poiché ognuno di noi ha bisogno della compagnia del male: il bene insegna, ma la presenza del male è importante, dal momento che la natura “non tollera vuoti”. Le sorelle sono: Cevriye, vedova, insegnante, priva di alcun tipo di umorismo, chiusa in un regime di disciplina ed autocontrollo, con, sotto gli occhi, due borse colme di dolore; Feride, ipocondriaca, dalla personalità borderline e Zeliha (V. Chico), la più giovane, la ribelle, la bella ragazza appariscente che porta nel cuore un terribile segreto. Infine, l’unico maschio della famiglia, Mustafà (R. Naldini), tanto amato dalle numerose donne della sua famiglia, quanto odiato fuori, senza amici, senza conoscenti, il quale finisce per emigrare negli Stati Uniti nel disperato tentativo della madre Gelsum di allontanarlo dall’infausto destino che sembra colpire, precocemente, tutti gli uomini della loro famiglia.
Molti dei pezzi di questo mosaico familiare sono, però, nascosti in cassetti che non dovrebbero mai essere aperti, come quello legato alla nascita di Asya e all’identità di suo padre, che nessuno le sa o le vuole dire. Asya, figlia di Zeliha, è lei la bastarda di Istanbul, la ragazza nata da un peccato, che il mondo comune turco considera come un male da estirpare: cresce chiamando zia anche la madre, con il suo stesso scetticismo, la sua stessa ribellione. L’incontro con Armanoush, ragazza armeno-americana arrivata fino ad Istanbul dall’Arizona alla ricerca delle sue origini, è l’incontro di due mondi, di due storie, di due passati dagli esiti tragici e terribili: la questione turco-armena entra prepotentemente sulla scena, mescolandosi alla quotidianità della vita della famiglia Kazanci, e dirompendo al suo interno fino all’emergere di tutte le voci delle vittime di questa storia: le vittime del passato e le vittime del presente, poiché “il passato continua nel presente, il passato non finisce mai, e tutti i sopravvissuti hanno il diritto di raccontare la loro storia”.
La storia ci mostra una città meravigliosa, romantica e pittoresca: grazie anche alle immaginifiche video-scenografie di Giuseppe Ragazzini, scopriamo che in realtà Istanbul, e la Turchia tutta, non sono realtà così lontane dalle nostre e gli occhi dell’autrice, ce la dipingono così: “È quasi l’alba, a Istanbul. La città è appena ad un passo da quella soglia misteriosa che separa la notte dal giorno. È l’unico momento in cui è ancora possibile trovare conforto nei sogni, ma troppo tardi per costruirne di nuovi”.