con Francesca Bianco
voce fuori campo di Antonio Palumbo – musiche di Francesco Verdinelli
regia Carlo Emilio Lerici
produzione Teatro Belli
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La guerra in Iraq raccontata da due donne.
Siamo a Baghdad.
All’interno del palazzo reale assediato dagli arabi Gertrude Bell attende che le forze inglesi stronchino la rivolta decretando così la fine del suo sogno di un paese arabo libero ed amico.
Siamo negli anni venti del secolo scorso.
Circa ottanta anni dopo, nel 2003, ad assediare il palazzo reale ci sono gli americani, fra loro una donna, un soldato.
Il suo sogno si riassume in un concetto semplice: tornare a casa viva. Ma non è così facile.
Gli occhi di queste due donne lontanissime nel tempo si incrociano per un attimo fra le rovine del palazzo reale, in quello sguardo si specchia la tragedia irachena a cui hanno assistito, complici e vittime al tempo stesso.
Lo spettacolo torna in scena in occasione della grande curiosità ed interesse suscitati dal personaggio di Gertrude Bell grazie all’uscita del film “La regina del deserto” di Werner Herzog, con Nicole Kidman.
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Teatro Belli
Piazza Sant’Apollonia 11a – Tel. 06.5894875
info@teatrobelli.it – www.teatrobelli.it
Orario spettacoli: dal martedì al sabato ore 21 – domenica ore 17,30
Prezzi: Interi € 18,00 – Ridotti € 13,00
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GERTRUDE BELL, la storia (fonte Corriere della Sera)
Nel 2006, improvvisamente, l’America ha riscoperto una donna inglese che da quasi un secolo è sepolta a Bagdad: Gertrude Bell, la madre fondatrice dell’Iraq, una protagonista del colonialismo che tracciò la sua mappa nel 1918. Libri, documentari, articoli sui principali quotidiani e riviste, convegni. Giornalisti a caccia della sua tomba nel «cimitero degli inglesi» di Bagdad, ormai abbandonato. E poi al Pentagono e al dipartimento di Stato gli sterminati rapporti della Bell al Foreign Office di Londra a cavallo della prima guerra mondiale, colmi di intrighi e di congiure, sono una lettura obbligata. E al Congresso, la scherzosa invocazione «Dove sei Gertrude Bell?» è diventata una sorta di esorcismo contro lo spettro della sconfitta in Iraq.
La riscoperta americana della khatun, la signora per antonomasia del mondo arabo, non è casuale. A più di ottant’anni dalla morte avvenuta nel 1926 — forse un suicidio, un’overdose di sonniferi — la sua storia è di straordinaria attualità. Fu Gertrude Bell, per un ventennio un pilastro della intelligence inglese, a creare l’Iraq, unificando tre province dell’ex impero ottomano, in consultazione con le tribù irachene, ma soprattutto a tutela degli interessi petroliferi britannici, e ad affidarlo a uno sceicco amico, un sunnita, Re Faisal, perché «io mi sento sunnita — scrisse — mentre gli sciiti sono succubi di mullah fanatici che in nome di Dio possono ordinare loro qualsiasi cosa». E fu lei a preparare la Costituzione, con un Parlamento, con un sistema giudiziario e istituzioni civili di stampo inglese.
«Gertrude Bell — ha dichiarato alla Cnn lo storico Judith Waphe del National Defense College — influì sull’assetto del Medio Oriente molto più di Lawrence, con cui collaborò a lungo, e la cui rivolta araba contro i turchi sarebbe stata impossibile senza di lei. Hollywood avrebbe dovuto girare un film non su di lui, ma su Gertrude».
I libri fanno un ritratto affascinante di questa ricca diplomatica Mata Hari dai capelli rossi, laureata a Oxford, esploratrice e poeta, ma conservatrice al punto da essere antifemminista — si batté contro il voto alle donne — e legata a Winston Churchill, allora agli inizi della carriera.
Nata nel 1868, Gertrude Bell trovò la sua vocazione nell’Islam a 24 anni, dopo un lungo soggiorno in Persia e un amore sfortunato che la avrebbe frustrata sentimentalmente e sessualmente per il resto della vita. Nel 1899 studiò l’arabo e l’archeologia a Gerusalemme, e dal 1900 al 1912 viaggiò in lungo e in largo per l’Arabia ottomana, alla Indiana Jones, ma sempre regale ed elegante, stabilendo strette relazioni con gli sceicchi e i mullah, assurgendo a leggendaria «figlia del deserto», facendo spionaggio per sua maestà britannica, e scrivendo trattati politici e libri d’arte e di viaggio. Allo scoppio della prima guerra mondiale, venne distaccata ai servizi segreti inglesi al Cairo, e più tardi, alle trattative di pace di Parigi nel 1919, fu incaricata di compilare il «dossier Mesopotamia».
In quel periodo Gertrude Bell «fu tra le donne più potenti del mondo», il profeta della «missione civilizzatrice» e dell’arricchimento dell’impero britannico, e lo mostrò plasmando l’Iraq, il cui petrolio era necessario a Londra come quello della Persia. Il Paese era in fiamme. Nel 1914 le forze armate inglesi, partite da Bassora nel Golfo Persico, avevano conquistato Bagdad, perdendo però 25 mila uomini nell’assedio di Kut. E un anno e mezzo dopo le tribù irachene si erano ribellate: per sconfiggerle temporaneamente, gli inglesi erano ricorsi ai gas mostarda e ai bombardamenti aerei. Per rimediare, spalleggiata da Lawrence, dopo averne definito i confini nel 1918 assieme a quelli del Kuwait e dell’Arabia saudita, la Bell propose d’instaurarvi una monarchia fedele alla Gran Bretagna, anti-sciita. Ma prevalse un altro progetto: quello della Grande Siria sotto re Faisal e la Giordania sotto re Abdullah, progetto che suggellò la fine dell’impero ottomano. La Bell venne nominata «ministro coloniale» iracheno al servizio del governatore Percy Cox, di fatto la «regina senza corona» dell’Iraq.
Solo nel 1921, quando la Francia rovesciò il trono di Damasco, fu deciso di trasferire Faisal a Bagdad, cosa che avvenne l’anno successivo. Da quel momento, malgrado il pomposo titolo di «consigliere dell’impero», Gertrude Bell perdette a poco a poco ogni potere. Era stata fattore di enormi cambiamenti politici, ma adesso Londra voleva la stabilità, ed era convinta di poterla raggiungere soltanto con le armi (non ci riuscì, l’insurrezione si intensificò, e nel 1932 l’Iraq ottenne l’indipendenza). Emarginata da Faisal, trascurata da Londra, i suoi successi letterari in calo, la madre fondatrice dell’Iraq si ritrovò isolata. Ma rifiutò il rimpatrio, e a 54 anni si concentrò sull’archeologia, creando il maestoso museo di Bagdad, a cui lasciò poi la sua intera eredità, 50 mila sterline, somma enorme in quegli anni. Un malinconico tramonto, per una donna abituata all’omaggio dei sovrani e al rispetto dei governi. Oggi il suo ufficio all’ambasciata inglese, in Haifa Street, è off limits: un cartello nella zona verde, la fortezza occidentale, ammonisce che la strada «è zona rossa, è pericolosa».
Stando alla rivista American Diplomat, uno dei più gravi errori di Paul Bremer, il proconsole americano in Iraq nel 2003-04, fu di ignorare la lezione di Gertrude Bell. «Ripeté gli sbagli della signora, che rifiutò l’autonomia agli sciiti del Sud nell’ambito di una federazione e puntò sui curdi a Nord per via del petrolio». La rivista cita il lamento della Bell per le incursioni dall’Arabia Saudita in Iraq della Akwan, la Fratellanza musulmana: «Ora al posto della Akwan c’è al Qaeda», rileva.
Cita il suo risentimento verso il clan sciita dei Sadr, oggi causa di guai per gli Stati Uniti: «Saiyd Muhammad Hassan Sadr è una forza del male». Cita la sua protesta contro l’impiego eccessivo della forza da parte delle truppe britanniche: «È difficile convincere il Paese che è indipendente, mentre ne bruciamo una parte». E cita i suoi contatti con i capi delle famiglie Chalabi e Jaffar, membri del governo iracheno allora come adesso. Non a caso, conclude la rivista, la Gran Bretagna dovette truccare il plebiscito a favore di re Faisal, il 96 per cento, e Churchill si rammaricò di avere messo piede in Iraq.