Un argomento inusuale quello raccontato dalla prolifica ed elegante inventiva di Gianni Clementi – commediografo nazionale la cui fama ha superato ampiamente i confini della nostra Penisola in barba ai molti esterofili italiani – in Ladro di razza, raffinata pièce ambientata in un periodo infelicissimo della nostra storia e ormai dimenticato e ignorato dai più.
Fa da sfondo autentico una Roma – che nell’ottobre 1943 agonizza oppressa dalla guerra, vessata dalla presenza dei tedeschi e impoverita dagli esiti di un impegno bellico catastrofico – in cui la vita procede con fatica e disagi che toccano tutte le classi sociali.
La vicenda si dipana in una scenografia costituita per due terzi da un ricco interno borghese e per un terzo dall’unico ambiente della misera e gelida baracca costruita senza servizi e acqua da Oreste, onesto e umile operaio delle fornaci di Valle Aurelia.
Costui – interpretato dal bravissimo Blas Roca Rey (attore peruviano naturalizzato italiano) – vede rivoluzionata la propria già grama esistenza da Tito (uno straordinario Massimo Dapporto capace di rendere le infinite sfumature dell’inganno, dell’ironia e anche dell’amore), ladruncolo e malfattore di piccolo cabotaggio e soprattutto da sempre amico inaffidabile eppure pervasivo, che, dopo avergli causato la rottura di un rapporto affettivo per avergli fornito a caro prezzo una patacca invece di un anello prezioso, reduce da un ‘soggiorno’ di alcuni mesi a ‘Regina Coeli’gli capita tra capo e collo implorando ospitalità perché perseguitato da un usuraio: un fior di gentiluomo piuttosto violento cui deve una discreta somma di denaro.
Elegante, persuasivo, ingannatore, menzognero, fifone e con una salda filosofia su come campare non lavorando, il simpatico lazzarone, incurante del coprifuoco e di altre sciocchezzuole del genere, cerca inutilmente di continuare la sua ‘attività’ finché il destino gli fa incontrare Rachele, una matura e straricca signorina ebrea che vive in un lussuoso appartamento nel quartiere ebraico, ancora chiamato ghetto come l’antico luogo d’isolamento poi risanato con l’Unità d’Italia.
L’ottima attrice Susanna Marcomeni offre uno splendido schizzo di questa single ante litteram, autonoma, capace, sicura di sé, insomma un’imprenditrice rampante che tuttavia non avendo mai conosciuto l’amore manifesta in questo campo titubanze, paure, contraddizioni, angosce, entusiasmi adolescenziali…: un quadretto divertente e delicato con pennellate di dolce poesia che entra in perfetta sintonia con il neorealismo sempre elegante di tutta la pièce.
Alla fine dello spettacolo, ben condotto dal regista Marco Mattolini, la guerra prima a latere irrompe in tutta la sua crudezza eppure capace di causare miracoli insperati: una vicenda raffinata, profonda e intensa che trascina nella storia senza la pretesa di essere una lezione cattedratica.