«Abbiamo creato ogni album come fosse una produzione indipendente, potevamo davvero decidere che non ci sarebbero stati dei singoli (45 giri ndr). E quando si guarda al nostro intero repertorio, ti rendi conto che, grazie a Dio, non dovevamo per forza intercedere con le radio commerciali. Il nostro atteggiamento era: ecco l’album, se poi volete passare qualcosa sulla radio che può andare bene, ok. Ma non chiedeteci, poi, di farne un’altra simile. Il quarto album è stato il frutto della nostra dedizione. Vivevamo in una casa con un studio mobile di registrazione, mangiare, dormire e fare musica insieme. Potevamo spingere al limite tutto quello che facevamo, fino al punto di raggiungere il massimo». (Jimmy Page per Guitar World e Rolling Stone Magazine)
Un album, quello dei simboli, che è, ancora oggi, il terzo più venduto nella storia degli Stati Uniti, dopo “Thriller” di Michael Jackson e “Their Greatest Hits, 1971-1975” degli Eagles. Ed essere famosi nel mercato discografico più ricco e importante del globo ha sempre voluto dire trasformare in soldi, tanti soldi, la montagna di copie vendute. I Led Zeppelin, oltre che con la loro musica, furono rivoluzionari anche in questo grazie al loro manager Peter Grant. L’immenso omone londinese, considerato a ragione il quinto elemento della band, metteva sempre al primo posto gli interessi dei suoi assistiti (scardinando le abitudini truffaldine in voga tra la quasi totalità dei suoi colleghi) con il miglioramento delle condizioni di retribuzione per i musicisti e nei rapporti con gli organizzatori dei concerti, difendendoli dalle truffe e dalle contraffazioni del merchandising , come dai cavilli della casa discografica, arrivando anche ad usare, insieme al fidato “roadie” Richard Cole, anche metodi spicci e poco ortodossi.
«Ci permetteva di potere fare la nostra musica tenendoci lontano da tutto il resto, senza che nessuno potesse interferire, sia che fosse la stampa, la casa discografica o i promotori dei concerti. Eravamo i suoi unici clienti e se noi facevamo le cose per bene, di riflesso, Peter ne avrebbe tratto il suo beneficio». (John Paul Jones)
Grant, sino dai tempi nei quali amministrava gli Yardbirds, aveva capito che non era tanto importante entrare nelle classifiche di vendite sul suolo natio, quanto cercare di conquistare le chart dall’altra parte dell’Oceano, dove i numeri si potevano moltiplicare all’inverosimile. I Led Zeppelin c’erano già riusciti con i primi tre album, ma il tour americano del 1972 li portò definitivamente nell’Olimpo, con una montagna di dollari al seguito. Ma il territorio degli Stati Uniti è vasto e i concerti sono tanti, bisogna trovare il modo per spostarsi da un capo all’altro, possibilmente in maniera confortevole. Fino ad all’ora era stato usato un piccolo jet Falcon, terribilmente soggetto alle turbolenze e quindi poco adatto a Page e Grant, che non amavano volare, oppure a Bonzo che era solito farsi un paio di drink prima di ogni atterraggio. Non si bada a spese, si noleggia lo “Starship” (un Boeing 720B dell’United Airlines che era stato acquistato dal manager Ward Sylvester ed il cantante pop ex-Monkees Bobby Sherman e poi trasformato in lussuoso aviogetto, con l’intento di affittarlo alle star impegnate nei tour negli States), un aereo, dotato di ogni tipo di comfort immaginabile e anche di più, al cui confronto impallidiva persino l’Air Force One dell’allora presidente Nixon.
Un vero e proprio hotel volante (vi sareste mai immaginati di trovare un salotto con camino a bordo di un aereo?) che permetteva agli Zeps di non cambiare continuamente albergo, e di potersi librare, quando la distanza lo consentiva, con tutta comodità tra un concerto e l’altro. Nel 1973 l’aereo verrà ridipinto con il logo della band in bella evidenza e resterà l’unico mezzo di trasporto, nei cieli statunitensi, fino al 1977. Ed è il tempo per un altro disco.
L’apparenza è che i Led Zeppelin abbiano dato, finalmente per qualcuno, un titolo compiuto alla loro quinta opera. In realtà anche questo disco doveva uscire, come denuncia la copertina, in forma completamente anonima. Questa volta le insistenze dell’Atlantic Records sono così pressanti che, alla fine, Peter Grant acconsente che venga posta una fascia di carta (avvolta attorno alla custodia così da essere costretti a romperla per accedere al vinile) che riportasse il nome della band e il titolo dell’album. Messi alle strette, i quattro musicisti burloni non si scoraggiano, scegliendo come titolo quello di una canzone già composta, “Houses Of The Holy”, ma che vedrà la luce solo nell’LP successivo. La fascia di carta otterrà anche l’effetto di alterare la visione delle “nudità” dei fanciulli, ma, nonostante l’innocenza del messaggio, la vendita dell’album sarà vietata, per diversi anni, in alcune zone del sud degli Stati Uniti.
Già, la copertina o custodia che dir si voglia. Mi sono trovato molte volte, con i giovani di oggi abituati ai cd e agli mp3, a cercare di spiegare il fascino di quei dischi così molto più grandi, il cui contenitore, oltre a consentire di leggere e capire i testi delle canzoni senza avere il bisogno di una lente di ingrandimento, aveva la sua importanza. Quella di “Houses Of The Holy” è stata ritenuta una delle più belle della storia del rock. La sua realizzazione fu affidata alla famosa Hipgnosis, all’avanguardia nel realizzare i contenitori di quei grandi dischi neri, in quanto, un tempo, anche l’esterno doveva tentare di essere un’opera almeno consona a quello che era impresso sul vinile. Il primo sketch lo esegue Storm Thorgerson (creatore delle copertine, tra le tante, di “The Dark Side Of The Moon” e “Wish You Were Here” dei Pink Floyd), rappresentando un campo da tennis in un verde elettrico, con un enorme racchetta che lo sovrasta. Pare che i Led Zeppelin si infuriarono parecchio, del resto sono sempre stati un po’ permalosi, immaginando che quella racchetta fosse un riferimento alla loro musica. Così licenziarono Thorgerson, che si occuperà in seguito di altre custodie per gli Zeps, affidandosi ad un altro grafico della Hipgnosis, Aubrey Powell. La copertina viene creata con un collage di foto, scattate a Giant’s Causeway (Irlanda del Nord, se non ci siete mai stati andateci.
Meglio la mattina presto o la sera tardi, tanto in estate là fa buio dopo mezzanotte, così ci sono meno turisti), ritoccate con l’aerografo mentre i fanciulli, fotografati in bianco e nero e ripetuti per 11 volte sulle copertina, sono i fratelli Stefan e Samantha Gates. L’insieme, all’inizio non sembra un granché, ma la leggenda narra che i ripetuti errori di tinta nel passaggio del’aerografo, alla fine, sortirono un effetto inaspettato. Dato che mi sento ancora molto guida turistica, l’interno della custodia raffigura Dunluce Castle, ad un tiro di schioppo dalle incredibili colonne basaltiche, il selciato del gigante Finn McCool.
Ammetto che mi sono lasciato andare, anche perché non è certo quello che sia accaduto tra il gigante irlandese e quello scozzese, di nome Angus. Leggende, come è una leggenda, questa sì ridicola, che qualcuno possa considera questo album un’opera minore dei Led Zeppelin. A parte che se si chiede ai fans della band del dirigibile di esprimere una preferenza sui primi sei dischi (sì lo so, siamo ancora al quinto) ognuno ne sceglierà uno diverso dall’altro, il monolite raffigurato da “” avrebbe schiacciato qualsiasi altro artista che aveva percorso il selciato del successo, i Led Zeppelin no. Continuano, incuranti, il loro cammino, ampliando i propri orizzonti musicali e la cura nella tecnica di produzione dei brani, collezionando un’altra perla che contiene almeno altri tre pezzi diventati leggendari.
La maggior parte dell’album viene registrata nella primavera del 1972, ma questa volta si cambia la magione. Mick Jagger non si accontenta di più di noleggiare solo il fidato studio mobile dei Rolling Stones, ma concede anche l’uso di una delle sue residenze, la splendida villa di Stargroves appena fuori Londra. Si rivelerà una scelta felice per il gran numero dei brani composti, che costringe la band a scegliere la composizione della tracklist del quinto album, lasciando gli altri, momentaneamente, in un cassetto. Il risultato è un disco solare, forse per il raggiungimento della propria auto-stima, dove emerge in maniera definitiva l’immenso talento di John Paul Jones. L’album viene pubblicato il 28 marzo del 1973 dopo essere stato mixato agli Olympic Studios di Londra e, poi, presso l’Electric Lady Studios di New York, fondati da Jimi Hendrix. Alla sua uscita riceve critiche contrastanti e quelle negative, al solito, hanno a che fare con la natura off-beat di alcune tracce (che sperimentano il funky, il reggae e forse anche un po’ di free jazz”) ma non impediscono il successo commerciale dell’album e le arene dei concerti sempre esaurite.
«I Led Zeppelin hanno avuto le folle più numerose ai loro concerti, le canzoni rock più forti, la maggior parte delle groupies e le criniere più piene di capelli. Alla fine tutto questo eccesso e successo si poteva trasformare in magniloquenza, ma in “Houses Of The Holy” la loro ispirazione è rimasta intatta». Questo breve estratto da un articolo di Gavin Edwards, pubblicato nel 2003 da Rolling Stones Magazine e che ripercorre il contenuto di “Houses” a distanza di un trentennio, è la sintesi migliore di una band che, all’epoca, era sempre stata chiamata a superarsi, ma basandosi sugli standard di allora e su quel presente, trascurando la ricerca musicale che hanno fatto dei Led Zeppelin, poi, un fenomeno a se stante. Senza eredi e senza paragoni proponibili.
Lato A
1 – The Song Remains the Same (Page, Plant)
Era stata concepita come brano strumentale, dal titolo “The Overture”, che doveva fungere come intro del brano successivo. Ma Plant ebbe un’idea differente, introducendo un testo che parla della musica come di un dono universale, aldilà dei contenenti, culture e razze, restando, quindi, sempre la stessa. Così la canzone fu espansa, diventando una summa del rock degli Zeps, con i quattro al loro meglio. Se poi volete la versione strumentale, quella del come doveva essere, vi accattate la riedizione deluxe, del 2014, con il cd doppio.
2 – The Rain Song (Page, Plant)
Uh, che meraviglia! Mi sale il groppo in gola, un pò come con “Since I’ve Been Loving You”, per una ballata struggente, una semplice canzone d’amore. Ineguagliabile. Non c’è “scala” che tenga, e questa è anche molto più difficile da suonare. I primi due brani devono essere ascoltati l’uno attaccato all’altro, secondo l’antico desiderio dei giganti che hanno camminato sulla terra. Ma questa volta youtube non è stato così clemente, o chi vi scrive così abile nel trovarli. Così ve li presento, insieme, come hanno fatto i Led Zeppelin nei loro concerti. L’una non cammina senza l’altra, con la chitarra a doppio manico di Jimmy, non perdetevela.
3 – Over the Hills and Far Away (Page, Plant)
Page e Plant le avevano dato vita già dai tempi di Bron-Yr-Aur, Jones e Bonham le regalano l’anima, l’unione diventa un perfetto stile zeppeliniano due punto zero.
4 – The Crunge (Bonham, Jones, Page, Plant)
Dunque accade che si improvvisi una jam session. Bonzo Bonham detta il ritmo, Jones arriva con il basso, Page si adegua suonando la chitarra in stile funk e a Plant non resta che iniziare a cantare. I Led Zerppelin sono così aperti che si lasciano andare al funky-soul (che poi deriverebbe dalle piantagioni, e poi dal blues, e poi dal rock, quindi i nostri restano in tema), tanto caro a James Brown. “The Godfather of soul” dava spesso delle amene indicazioni alla sua band, del tipo: “Take it to the bridge”, dove il ponte era il compimento della canzone. Lo stesso ponte che Plant cerca nel brano e, alla fine si arrende con un laconico: “Where’s that confounded bridge?”. Eppure questo tributo, ad una vera leggenda, ha disturbato alcuni critici.
Lato B
1 – Dancing Days (Page, Plant)
Ispirata da una melodia Indiana, durante il viaggio compiuto a Bombay da Page e Plant, è stata la prima canzone presentata dall’Atlantic Records per il lancio dell’album e trasmessa su BBC Radio quattro giorni prima dell’uscita di “Houses Of The Holy”.
2 – D’yer Mak’er (Bonham, Jones, Page, Plant)
È bene sapere che il titolo, con la pronuncia cockney, magicamente diventa “Jamaica”, siamo sempre nel 1973 ed il reggae, ancora, non si sapeva bene cosa fosse. Se non vi piace, se non accettate un “divertissement” dal dirigibile, date la colpa a Bonzo, perché fu lui a inventarsi il riff portante.
3 – No Quarter (Jones, Page, Plant)
Il terzo brano intoccabile del disco, eredità dei giorni di Headley Grange. Pensata e composta da John Paul Jones, è diventata il fulcro dei concerti dei Led Zeppelin dai quali non è mai mancata, compreso l’ultimo tour del 1980. Così importante da dare il nome all’album omonimo del 1994 di Page e Plant, ma lasciando fuori da esso l’alchimista degli strumenti che si inerpica, e trascina gli altri tre membri, verso sonorità jazz il cui assolo al piano, raggiunto dalla chitarra di Page e la batteria di Bonzo, raggiunge la perfezione. Il testo, che torna alle influenze delle leggende celtiche, si riferisce alla mancanza di pietà verso il nemico sconfitto e, allo stesso tempo, canta il coraggio dello sconfitto che non chiede pietà. Questo è il brano come è stato riproposto nel film “The Song Remains The Same”.
4 – The Ocean (Bonham, Jones, Page, Plant)
Il vocione di Bonzo Bonham introduce l’ultimo brano, il cui titolo prende lo spunto dalla marea dei fans, ai quali è dedicata la canzone, che i Led Zeppelin vedevano dal loro palco durante i concerti.
– continua –