Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nel mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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Mesi precedenti: FEBBRAIO 2015 – GENNAIO 2015
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Genere: drammatico
Regia: Mike Binder
Cast: Kevin Costner, Octavia Spencer, Jillian Estell, Jennifer Ehle
Sinossi: Il razzismo è ancora uno dei nervi scoperti degli Stati Uniti e a cinquant’anni dalla marcia su Selma (oggetto di un ottimo film recentemente apparso sugli schermi) nonostante la maggioranza del popolo americano abbia eletto un Presidente di colore esistono ancora infiniti preconcetti e sacche di violenza e odio contro la popolazione di origine africana. L’originalità del film è ipotizzare un caso quasi di razzismo alla rovescia: Eliot Anderson (una delle migliori interpretazioni di Kevin Costner) avvocato bianco di successo deve affrontare una battaglia legale perché accusato dalla madre (Octavia Spencer) del padre della nipote di non voler far crescere la bambina in una famiglia nera. Il padre era, infatti, un ragazzo di colore un po’ disadattato e la bimba (per la morte della madre dopo il parto) è stata cresciuta da Anderson e da sua moglie Eloise. I problemi si manifestano dopo la morte di quest’ultima anche per la mancanza di una figura femminile di riferimento a livello educativo e per un’accentuata debolezza verso l’alcol dell’avvocato.
Origine: Usa
Anno: 2014
In sala dal 5 marzo 2015
Note: Con Black or White Costner conferma la propria partecipazione non solo ideale (il film è stato prodotto da lui non trovando finanziatori) alla lotta contro il razzismo in ogni sua forma (anche quando si manifesta all’interno di una famiglia bicolore), tematica costante nella sua attività che considera anche espressione del proprio impegno civile. Si è ripetuto il caso di Balla con i lupi: anche allora Costner era stato l’unico a credere in un soggetto scomodo per una nazione che vuol ignorare il peccato originale del genocidio dei nativi per cacciarli dalle loro terre (a ben vedere anche quella era una forma di razzismo). Il film poi vinse sette Oscar ed ebbe un enorme successo internazionale: l’augurio è che Black or White possa avere eguale risultato, anche se obiettivamente Mike Binder ha affrontato l’intrigante tema con eccessive cautele.
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Genere: commedia
Regia: Sergio Castellitto
Cast: Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Anna Galiena, Marina Rocco, Massimo Bonetti, Angela Molina, Roberto Vecchioni
Sinossi: Nessuno si salva da solo è un film molto semplice e molto complesso perché semplice e complessa è la vita quotidiana di tutti noi e Delia e Gaetano (i due protagonisti) possono essere nostri vicini di casa o parenti o noi stessi allo specchio della vita. Film lineare sulla quotidianità: proprio per questo lo spettatore ride e si commuove e, uscendo dal cinema, si ritrova con una lunga serie di pensieri e la sensazione di aver vissuto frammenti della propria storia. Delia e Gaetano fanno parte di quella generazione che cresciuta dopo la caduta del Muro di Berlino e la trionfalmente proclamata fine delle ideologie è rimasta priva di riferimenti etici e ideologici salvo l’unico scopo di conseguire comunque il successo. Un successo che però arride a pochi e non è detto siano i migliori. Non giunge di certo a Delia e Gaetano, due ragazzi normali e seri ma che – come tanti della loro generazione – rifiutano di crescere accettando che la società e la vita non siano quelle che hanno sognato. Due che si sentono sconfitti, ma a differenza di tanti altri non si arrendono. Di origine sociale diversa e con problemi rispetto alle rispettive famiglie, s’incontrano, si amano, si sposano, hanno due figli e si separano. Il film racconta una cena che – decisa per parlare delle vacanze estive dei figli – diviene occasione per rivivere la loro storia, dall’incontro alla separazione, ovviamente punteggiata da dolcezze e rancorose asprezze. Nel tavolo vicino siede un’anziana coppia…
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 5 marzo 2015
Note: Quinto lungometraggio diretto da Castellitto e ispirato dall’omonimo romanzo della moglie (Margaret Mazzantini la cui scrittura molto visiva ed evocativa è peraltro particolarmente adatta a essere tradotta in film), terzo esempio di collaborazione familiare dopo Non ti muovere (2004) e Venuto al mondo (2012). L’ottima regia abilmente condotta su due piani, paralleli, ma dall’evoluzione opposta non presenta cadute di ritmo, non cede mai alla noia, al melodramma e al volgare e si avvale di un ottimo cast. Castellitto con una grande intuizione ha affidato le parti dei due protagonisti a Riccardo Scamarcio (forse la sua miglior prova attoriale) – che rende perfettamente Gaetano abilissimo a sgusciare tra i problemi, pieno di gioia, di talento di vivere e di ottimismo – e a Jasmine Trinca (indubbiamente tra le migliori e più complete attrici italiane) che riesce nella difficile prova di rendere accettabile e a volte anche simpatica la durezza esistenziale di Delia. Due caratteri opposti che riflettono i rapporti con le proprie famiglie: Gaetano si sente incompreso nelle proprie aspirazioni dal padre sindacalista, uomo semplice, allegro e sereno, mentre Delia si porta dentro un consolidato rapporto conflittuale con la madre (la sempre brava e bella Anna Galiena) come mentalità e carattere opposta a lei. Uno splendido film – eccezionale la colonna sonora che spazia da Leonard Cohen a La sera dei miracoli di Lucio Dalla – che coinvolge lo spettatore fino a renderlo quasi coprotagonista. Da non perdere.
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Genere: commedia
Regia: Glenn Ficarra, John Requa
Cast: Will Smith, Margot Robbie, Rodrigo Santoro
Sinossi: L’inizio e tutta la prima parte di Focus sono strepitosi: un fuoco d’artificio di colpi di scena svela, ammiccando allo spettatore, il mondo particolare – ma in qualche misura esistente – dei protagonisti. Niente è come sembra recita la seconda parte del titolo e dalla prima sequenza (la classica ma sempre efficace truffa del falso marito che al momento opportuno interrompe l’adulterio della ‘moglie’ propiziando la ‘ripulitura’ economica dell’ingenua vittima) all’ultima inquadratura il film resta fedele alla promessa. È evidente che l’ambiente è quello delle truffe: Nick ‘Mellow’ Spurgeon (Will Smith) è un simpatico e allegro truffatore, ma soprattutto è un abilissimo borseggiatore con le dita di velluto, abilità che mantiene oltre che con l’esercizio professionale con intensi allenamenti e la bella Jess (Margot Robbie) è un’aspirante borseggiatrice che vorrebbe specializzarsi sotto la guida di Nick. Il nostro ‘eroe’ prima recalcitra e poi acconsente: i due portano a termine una serie di colpi spettacolari e imprevedibili (anche per lo spettatore). Quando il rapporto comincia a travalicare l’aspetto professionale, Nick liquida Jess. Si rincontreranno dopo qualche tempo in Argentina ove Nick è approdato alla caccia di nuove avventure. Dopo alcuni momenti un po’ stanchi il film riprende il ritmo iniziale e si conclude con una girandola mozzafiato di colpi di scena.
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 5 marzo 2015
Note: Film scacciapensieri, ma non banale, elegante e ben recitato da tutto il cast fa trascorrere quasi due ore in serenità, il che non è poco, specialmente se si è oppressi dai piccoli, grandi ma soprattutto noiosi problemi della quotidianità. Ovviamente non si è in presenza di un film ineccepibile: alle cadute di ritmo si è già accennato e alcune incongruenze ogni tanto emergono, ma in fondo ‘nulla è come appare’ anche tra i protagonisti e la mission del film è pienamente raggiunta. Perché chiedere di più e spaccare il capello in quattro?
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Genere: drammatico
Regia: Michel Hazanavicius
Cast: Bérénice Bejo, Annette Bening, Abdul Khalim Mamutsiev, Maksim Emelyanov, Zukhra Duishvili
Sinossi: The Search è uno dei pochi film dedicati alla tragica guerra russo-cecena di cui poco si conosce a cominciare dalle cause e dalle reali finalità dei contendenti: si tratta di uno di quei conflitti che si sa che esistono perché ogni tanto esplodono sulle prime pagine dei giornali, spesso con titoloni e dichiarazioni fideistiche, per poi rientrare nell’oblio senza alcun approfondimento. Ben venga quindi l’opera di Hszanavicius che consente allo spettatore di conoscere qualche immagine (sempre più incisiva delle parole) di una realtà così lontana, non solo geograficamente. Film pieno di buone intenzioni e a cui il regista pensava da tempo, The Search non rientra certamente tra le sue opere più riuscite: succede spesso quando si realizza un progetto a lungo desiderato. Il racconto è semplice: un bambino di nove anni, Hadji (bravissimo il piccolo Mamutsiev), dopo aver visto uccidere i genitori dai soldati russi fugge, portando in braccio il fratellino, convinto che la sua famiglia sia stata sterminata (in realtà anche la sorella si era salvata ed è alla ricerca dei fratelli). Incontra Carole (Bérénice Bejo), un’attivista per i diritti umani inviata dall’Unione Europea, ma traumatizzato rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda. La donna decide comunque di occuparsi di lui e proteggerlo dalle molte insidie. Il regista lascia sullo sfondo il conflitto russo-ceceno rinunciando a ogni aspetto di film-documento per privilegiare la componente melodrammatica, senza peraltro riuscire a creare pathos, forse per una struttura filmica troppo costruita.
Origine: Francia/Georgia
Anno: 2014
In sala dal 5 marzo 2015
Note: Michel Hazanavicius, sebbene di origine lituana, è nato e cresciuto a Parigi ove è avvenuta la sua formazione cinematografica caratterizzata, quindi, da profondi legami culturali con le grandi cinematografie occidentali. Autore dalle molteplici esperienze (di lui si ricordano per esempio due film-parodia sulla serie di 007), ha raggiunto notorietà e fama interazionali nel 2011 con The Artist, magnifico, originale e pluripremiato film muto e in bianco e nero. La sua ultima opera, pur con alcuni aspetti molto interessanti, non è certamente all’altezza della recente fama. Ambientato durante il conflitto russo-ceceno, The Search potrebbe essere considerato un remake di Odissea tragica (un bel film del 1948 di Fred Zinnermann che racconta la storia di un bambino reduce da un campo di concentramento) su cui si innestano elementi del neorealismo italiano e in particolare di Rossellini (Germania anno zero, altro film del 1948). Le molte problematiche interne e internazionali, ideologiche e religiose insite nel conflitto sono accennate fugacemente per privilegiare, invece, gli aspetti più emotivi connessi alla storia del piccolo Hadji. Nemmeno la condanna della straordinaria lentezza (se non inesistenza) della diplomazia europea, sebbene strettamente connessa con quanto avviene nel film, assume i toni della denuncia.
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Genere: documentario
Regia: Frederick Wiseman
Cast: Leonardo, Rubens, Tiziano, Turner e tutti gli ‘ospiti’ della National Gallery
Sinossi: La National Gallery di Londra è una delle più spettacolari e famose istituzioni museali al mondo, Frederick Wiseman uno dei più grandi documentaristi viventi: l’incontro non poteva non generare un capolavoro tale da appassionare anche chi non è solito praticare arte e musei. Wiseman è un regista asciutto, essenziale che non indulge in estetismi nemmeno di fronte ai più famosi capolavori dell’arte di ogni tempo mostrandoceli con il massimo rispetto nella loro bellezza che non richiede falsi orpelli o esibizionismi registici. Per raggiungere questo risultato occorre, però, essere un artista e un Maestro come quelli che fotografa. Il film presenta inoltre un secondo aspetto di grande interesse mostrando anche il ‘dietro le quinte’, cioè il lavoro quotidiano di centinaia di persone impegnate in attività di marketing, riunioni organizzative e sperimentazioni didattiche e inoltre il senso di responsabilità e la passione di quanti operano nell’Istituzione dalle guide ai tecnici, fino ai dirigenti. Un esempio di come si preserva il passato dai danni del tempo e lo si rende fruibile al maggior numero possibile di giovani e anziani salvaguardandone l’insostituibile funzione formativa. Tre ore di proiezione che trascorrono in un lampo.
Origine: Francia/Usa
Anno: 2014
In sala 11 marzo 2015
Note: Frederick Wiseman è stato premiato nel 2014 con il Leone d’Oro alla carriera al Festival Internazionale del Cinema di Venezia e i suoi documentari, qualsiasi argomento trattino (musei, fabbriche, manicomi…), sono sempre un evento culturale e un motivo di riflessione. Natonal Gallery è stato presentato come evento speciale alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2014 ed è un ‘evento speciale’ per la sua capacità di promuovere la cultura e far conoscere anche a chi non può recarsi a Londra questo luogo unico. Il film di Wiseman non è un semplice documentario: è uno strumento di conoscenza di questa Istituzione britannica e dovrebbe essere proiettato nelle scuole non solo per far vedere capolavori di ogni tempo che si possono ammirare solo a Londra (la visita vale il viaggio), ma per far capire come un museo non sia un susseguirsi di sale polverose che conservano il passato, ma il cuore del futuro. L’osservazione a 360° di Wiseman mostra inoltre come un quadro possa essere ‘visto’ anche dai non vedenti grazie all’uso di particolari guide tattili in Braille. National Gallery è una magnifica opera d’arte ed è un vero peccato che la sua apparizione sugli schermi sia breve: è il frutto del grado di cultura del nostro Paese… Grazie comunque alla Nexo Digital impegnata nella difficile e meritoria mission di far conoscere questi strumenti di diffusione e di memoria dell’ingegno umano.
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FOXCATCHER – UNA STORIA AMERICANA
Genere: thriller psicologico
Regia: Bennett Miller
Cast: Channing Tatum, Steve Carell, Mark Ruffalo, Vanessa Redgrave, Sienna Miller
Sinossi: Foxcatcher è il racconto della tragica megalomania di John du Pont, eccentrico miliardario appassionato di lotta libera, disciplina sportiva divenuta per lui simbolo di reazione alla sudditanza psicologica nei confronti dell’anziana e imperiosa madre (un’eccezionale Redgrave che con poche battute lascia nel film un segno indelebile). La madre, infatti, disprezza la lotta considerata sport plebeo (esemplare pagina di cinema l’espressione del viso e degli occhi con cui commenta la visita alla palestra) in contrapposizione a quelli ippici giudicati nobili. Il desiderio di affrancarsi da chi in famiglia è più forte (e consapevolmente o meno esercita il potere che ne deriva) è il filo che unisce il miliardario a Mark Schultz, medaglia d’oro olimpionica di lotta libera. Mark, infatti, inconsciamente soffre l’amorevole tutela del fratello maggiore David (un ottimo Mark Ruffalo), anche lui campione olimpico, che si è sempre occupato dei suoi allenamenti: meno prestante di Mark ha, però, una maggiore intelligenza tattica. Sogno del miliardario è costituire una squadra di lottatori con cui vincere per gli Stati Uniti le Olimpiadi di Seul (1988). Ottima l’interpretazione di Steve Carell, dal volto irriconoscibile per varie protesi e naso finti, nel suo primo ruolo drammatico (John du Pont).
Origine: Usa
Anno: 2014
In sala dal 12 marzo 2015
Note: Palma d’oro per la miglior regia al Festival di Cannes, Foxcarcher è un film complesso che mostra il lato meno nobile del sogno americano, quello rappresentato dal ‘potere dei soldi’ con cui si può comprare tutto, anche rappresentare il Paese alle Olimpiadi per soddisfare le proprie paranoie. I fatti narrati da Bennett Miller (al suo terzo lungometraggio dopo Truman Capote – A sangue freddo del 2005 e L’arte di vincere del 2011) sono realmente accaduti e il regista ne esamina gli aspetti sia pubblici (i rapporti con la società e il potere in cui il magnate è apparentemente vincente) sia privati. Miller si dimostra abilissimo nel rendere l’inquietante equilibrio tra due psicologie in cui ognuna cerca conforto nella debolezza dell’altra, ma in cui Mark (privo della guida del fratello, ma comunque bisognoso di una guida) finisce per smarrirsi. Un grande film che merita di essere visto se non altro per le performance dei protagonisti e per una regia che ha saputo sintetizzare in immagini accattivanti una complessità di rapporti da trattato di psicologia.
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Genere: drammatico
Regia: Saul Dibb
Cast: Michelle Williams, Kristin Scott Thomas, Matthias Schoenaerts, Sam Riley, Ruth Wilson, Heino Ferch, Tom Schilling, Harriet Walter, Alexandra Maria Lara, Clare Holman, argot Robbie, Lambert Wilson
Sinossi: Tratto da Dolce, – racconto lungo della scrittrice ebrea di origine ucraina Irene Nemirovsky – il film Suite francese racconta la guerra soprattutto dal punto di vista delle donne. Le sequenze iniziali sono di altissima classe e incisività: raramente con poche immagini formalmente splendide è stata resa in modo così drammatico la tragedia della guerra per chi non è al fronte. È il 1940 e da Parigi occupata dalle truppe naziste la popolazione incredula e sgomenta fugge cercando rifugio nelle campagne con la speranza di sottrarsi alla pressione degli invasori. Il piccolo paese agricolo di Bussy è stato scelto dall’esercito tedesco per dislocarvi un battaglione i cui soldati dovranno essere ospitati nelle case degli abitanti: il film fotografa le reazioni della popolazione a questa convivenza obbligata. C’è chi come il Visconte e la Viscontessa (Harriet Walter ne rende ottimamente l’arida e meschina cattiveria) scelgono di fare affari con gli occupanti sperando di ottenere un trattamento di favore e c’è chi come i contadini esprimono una tacita, ma ferma opposizione. La regia si sofferma ad analizzare la reazione psicologica delle donne (mariti e fidanzati sono al fronte) alla provocatoria esibizione del proprio fisico da parte dei soldati tedeschi. Anche la ricca famiglia Angellier (la giovane e bella Lucile e la suocera bigotta, gretta e oppressiva, mentre il rispettivo figlio e marito è al fronte, forse prigioniero) deve ospitare un ufficiale tedesco, il giovane Bruno von Falk, che cerca per cultura ed educazione di essere diverso dai commilitoni. Se il racconto non cade nel melodramma (prevedibile) e resta vivo e teso, lo si deve alla bravura di Michelle Williams (Lucile) e Matthias Schoenaerts (Bruno) e ad alcuni guizzi della regia.
Origine: Canada, Francia, Gran Bretagna
Anno: 2014
In sala dal 12 marzo 2015
Note: Irene Nemirovsky donna colta, benestante e poliglotta fu – in Francia dove risiedeva – scrittrice di grande successo e morì a soli 39 anni ad Auschwitz. L’opera da cui è tratto il film è stata pubblicata postuma (nel 2004 con il titolo Suite Francese) su iniziativa della figlia Denise che fino ad allora non aveva letto i quaderni affidatile dalla madre pensando che si trattasse del suo diario. La Nemirovsky aveva immaginato un romanzo epico sulla guerra, ma riuscì a scrivere solo le due prime parti (Tempesta in giugno e Dolce), appunti per la terza (Prigionia) e solo i titoli delle ultime due (Battaglie e La Pace). Suite Francese è un film interessante non banale che esamina – soprattutto a livello psicologico – il tema delle reazioni dei singoli a eventi catastrofici come la guerra e la perdita della libertà e dell’indipendenza. Lucile e Bruno appartengono a due mondi opposti, si trovano in sintonia perché entrambi sono sensibili e raffinati e la loro storia è sofferta e profonda, ma che possibilità ha di svilupparsi in una situazione estrema come quella in cui vivono? Saul Dibb lascia allo spettatore molti interrogativi non banali come quelli che nascono osservando Bruno (il personaggio più interessante e complesso) non tanto nel suo rapporto con Lucile, ma nella dicotomia tra il suo agire come uomo e come soldato.
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Genere: commedia
Regia: Lamberto Sanfelice
Cast: Sara Serraiocco, Ivan Franek, Giorgio Colangeli, Anatol Sassi, Andrea Vergoni
Sinossi: Opera prima di Lamberto Sanfelice, Cloro si fa apprezzare per le immagini molto belle e accurate, non fine a se stesse ma esemplificazione visiva dello stato d’animo e dei pensieri dalla protagonista, la diciassettenne Jenny che per gli imprevedibili casi della vita vede stravolte le prospettive del suo futuro. Sanfelice – peraltro coadiuvato dall’espressività dell’ottima Sara Serraiocco – è stato molto bravo nel finale: sono sufficienti due sequenze (quella in cui Jenny osserva attraverso i vetri l’agognata piscina e le sue antiche compagne che si muovono come statuine di un carillon e la successiva in cui guarda il mare con le sue lunghe onde) per far capire, senza ricorrere a una parola, quanto la ragazza sia cambiata. Jenny è una diciasettenne che vive a Ostia, frequenta l’ultimo anno del proprio ciclo scolastico ed è appassionata di nuoto sincronizzato, disciplina in cui eccelle e in cui spera di ottenere una medaglia nei prossimi campionati italiani. Il destino sempre in agguato ha disposto, però, altrimenti. Il padre (un incisivo Andrea Vergoni) già colpito da una grave depressione per la perdita del lavoro e della moglie (raffinatissimo il modo in cui il regista lascia intendere come la moglie sia mancata in modo traumatico) rimane anche senza la casa – requisita dalla banca non essendo più in grado di pagare le rate del mutuo – ed è costretto a trasferirsi con i due figli sulle montagne abruzzesi in una baita messa a disposizione dal fratello. Jenny deve abbandonare scuola, piscina e amicizie per accudire padre e fratello e cercare un posto di cameriera nel vicino albergo: una vita opposta a quella sognata. Il film racconta la lotta di Jenny per non rinunciare al suo sogno.
Origine: Italia
Anno: 2014
In sala dal 12 marzo 2015
Note: Cloro è il tipico odore che resta sulla pelle di chi nuota molto in piscina e sintetizza il sogno della protagonista. Film semplice e gradevole, racconta l’evoluzione psicologica di una ragazza che si trova troppo presto a dover rinunciare all’adolescenza e ai suoi sogni. In quest’ottica il cuore del film è il sentimento di Jenny verso il fratellino Fabrizio inizialmente subito dalla giovane come ostacolo al realizzarsi delle sue aspirazioni e divenuto quasi inconsciamente ragion d’essere della sua vita, quasi che la forzata e accelerata maturazione impostale dagli eventi l’abbia trasformata da sorella in madre. La storia con Ivan (il custode) è un legame di reciproca comprensione tra due ‘pesci fuor d’acqua’ estranei all’ambiente e alla mentalità di quello sperduto paesino della montagna abruzzese. Entrambi sono portatori da una cultura incomprensibile per la popolazione locale: Ivan è profugo da una delle tante guerre che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia e Jenny è ‘profuga’ da Ostia che per mentalità dista dalla Majella molto più della distanza chilometrica e andarci a vivere è un viaggio a ritroso nei decenni.
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Genere: azione
Regia: Michael Mann
Cast: Chris Hemsworth,Viola Davis
Sinossi: Blackat (il termine si riferisce a chi per tornaconto personale o per danneggiare viola la sicurezza informatica) tratta un tema di grande attualità: le nuove forme di spionaggio e terrorismo in un mondo sempre più informatico e tecnologico. Il racconto prende le mosse da alcune catastrofi globali provocate da cybercriminali e dalla necessità di individuare chi è stato capace di modificare un codice esistente da molti anni e innocuo in un virus che attacca a distanza impianti nucleari cinesi o la borsa di Chicago. Non si creda di essere in piena fantascienza se – come ha avuto occasione di dichiarare Michael Mann (settantaduenne Maestro del cinema americano) – l’idea del film è stata originata da Stuxnet, virus informatico creato negli Stati Uniti per sabotare una centrale nucleare iraniana. Probabilmente Stuxnet è stata la prima arma virtuale, anticipazione di quello che potrebbe essere un conflitto nell’era della cybernetica: virtuale ma non per questo meno drammatico per le popolazioni coinvolte. Poiché a volte gli abili criminali sono grandi esperti nella loro specializzazione nel film le autorità ricorrono a Nick Hathaway (l’ottimo Chris Hemsworth), un hacker ‘super’ che sta scontando una lunga pena detentiva: sarà a capo di una squadra internazionale in cambio della cancellazione della pena. Se il tema trattato è originale (certamente sarà oggetto di molte future sceneggiature), Blackhat merita di essere visto anche solo per il ritmo e l’equilibrio della regia e per il vortice delle location coinvolte: 75 distribuite tra Usa, Cina, Malesia e Indonesia.
Origine: Usa
Anno: 2014
In sala dal 12 marzo 2015
Note: Con Blackhat il settantaduenne Mann esordisce nel digitale e lo fa con un film che è l’immagine del mondo in cui viviamo, in cui sempre meno si capisce quale sia il confine tra reale e virtuale e a volte si ha il sospetto che il secondo prevalga sul primo e in cui le tecnologie avanzate fanno passare in secondo piano politica e denaro perché danno il potere di colpire chiunque (come afferma il ‘cattivo’ del film). Se si medita su quanto si è visto sullo schermo e su quanto avviene intorno a noi, una cosa è certa: nell’epoca in cui esistono apposte leggi nulla è più aleatorio della privacy e ha ragione il regista a sostenere che “in rete è come se lasciassimo porte e finestre di casa spalancate”. Orwell si rivela sempre più il vero profeta del Novecento. Mann non è un regista prolifico (undici lungometraggi in trentaquattro anni di carriera) perché ama essere sempre ‘fuori dal coro’ anche rispetto a Hollywood (forse per questo, pur essendo stato candidato per quattro volte all’Oscar, non lo ha mai vinto).
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Genere: documentario rock
Regia: Saul Swimmer
Cast: I Queen: Freddie Mercury (voce), Brian May (chitarra), Roger Taylor (batteria) e Johm Deacon (basso)
Sinossi: Queen Rock Montreal – considerata una delle migliori esibizioni della fantastica carriera del complesso inglese – fu registrato il 24 novembre 1981 ed è stato il primo concerto a essere ripreso per intero nel formato cinematografico 35mm. Rimasterizzato e restaurato in Ultra HD, dà vita a un’emozionante esperienza cinematografica che permette ai giovani di oggi di conoscere al meglio, capire e apprezzare uno dei miti dei loro genitori e a questi di rivivere le suggestioni di quegli anni ormai lontani rendendosi conto con soddisfazione che la polvere del tempo non ha per nulla offuscato la pura bellezza di quelle note. Questo filmato, come il precedente Hungarian Rhapsody: Queen Live in Budapest (che nel 2012 è stato visto nelle sale italiane da oltre 80.000 spettatori) testimonia la grande sintonia che il gruppo sapeva raggiungere con il pubblico di qualsiasi Paese e l’entusiasmo che sapeva creare il suo leader Freddie Mercury. I Queen hanno portato il loro anelito alla libertà in ogni Nazione in cui si sono esibiti, ma mai con un significato così profondo come nel concerto ungherese che rappresentò un’incredibile apertura del regime all’Occidente di cui divennero simbolo nel cuore di tutti (o quasi) gli ungheresi e non solo dei giovani. Sono 17 i brani eseguiti a Montreal, tutti splendidi per ritmo, musicalità ed effetti scenografici (perfettamente ripresi e montati dalla regia del film), ma alcuni raggiungono la vetta dell’eccellenza come Bohemian Rhapsody in cui i giochi di luce sono perfettamente armonizzati con i virtuosismi del gruppo o We are the Champions o, infine alle due versioni (una trascinante e veloce e una più tradizionale) di We Will Rock You.
Origine: Gran Bretagna
Anno: 2015
In sala dal 16 al 18 marzo 2015
Note: I Queen nascono alla fine del 1970 dallo sciogliersi degli Smile di cui alcuni di loro facevano parte e quando arriva Freddie Mercury (pseudonimo di Farrokh Bulsara) cui si deve il nome e il simbolo della band e che si rivelerà uno straordinario ‘uomo da palcoscenico’ per la capacità di ammaliare il pubblico non solo con la voce. Troveranno il loro assetto definitivo nel febbraio 1971 quando Deacon ne diverrà il batterista. Il loro primo album (Queen) è del 1973 e da allora hanno dominato la scena del rock (l’esibizione nel mitico stadio di Wembley in occasione del ‘Live Aid’ del 1985 a Londra è stata giudicata vent’anni dopo la migliore performance rock di tutti i tempi) per decenni. Alla loro ultima tournée (1986) hanno assistito oltre un milione di fan in tutto il mondo, ma il successo continua con gli album pubblicati fino al 1991 quando Freddie Mercury annuncia (23 novembre) di essere malato di Aids: si spegnerà il giorno successivo. L’ultimo successo è postumo: gli altri tre membri della band completano le canzoni che avevano iniziato a comporre nel 1991. L’uscita mondiale di Made in Heaven è il suggello di un’era.
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Genere: commedia
Regia: Roan Johnson
Cast: Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D’Amico, Guglielmo Favilla, Melissa Anna Bartolini, Isabella Ragonese
Sinossi: Incredibile prodotto artigianale basato sulle idee, la volontà e il coraggio di un gruppo di giovani raccolti intorno al geniale regista Roan Johnson (al suo secondo lungometraggio) che ha saputo creare uno dei più interessanti film di questa stagione cinematografica ricca di ottime proposte, anche italiane. Fino a qui tutto bene (titolo mutuato da un’espressione tipica delle banlieue parigine a indicare la precarietà assoluta) non doveva in origine nemmeno essere un film: Johnson, infatti, era stato incaricato dall’Università di Pisa di realizzare un documentario intervistando gli studenti. Dalle interviste (è emerso un mondo giovanile che invece di ritenersi vittima della crisi ha un atteggiamento di sfida) nasce l’idea del film imperniato sull’ultimo weekend di tre ragazzi e due ragazze che, ormai laureati, stanno per abbandonare l’appartamento in cui hanno convissuto. Uno sguardo indietro carico di nostalgia per un’epoca fatta di pastasciutte condite di nulla, ma entro uno schema consolidato di studi, esami, feste, amori… ormai inesorabilmente finito e uno proiettato verso un futuro quanto mai incerto e precario, ma colmo di speranze. C’è chi è atteso da un ‘posto’ trovato dal padre e chi ha accettato di andare all’estero e chi forse non ha prospettive immediate, ma molta voglia di costruire. In tutti c’è la consapevolezza che il tempo dei sogni è finito e che oltrepassata la soglia della casa ormai svuotata li attende il mare aperto della vita, il che non esclude si possa cercare di realizzare qualche sogno.
Origine: Italia
Anno: 2014
In sala dal 19 marzo 2015
Note: Roan Johnson, dopo il successo del film d’esordio (I primi della lista – 2011), ha confermato di essere una delle figure più interessanti tra i giovani registi italiani sapendo coniugare levità narrativa e serietà degli argomenti trattati e creare opere divertenti ma non banali e tanto meno volgari. Fino a qui tutto bene – ha vinto al Festival Internazionale del Film di Roma il ‘Premio del Pubblico’ ed è stato selezionato per il Festival dell’Avana – è un’opera semplice che non si propone ‘effetti speciali’ di nessun tipo, ma coinvolge irresistibilmente lo spettatore (e lo diverte) forse perché gli ricorda quegli anni in cui si era felici con poco. Non è, però, un film nostalgico e descrive in tutti i suoi aspetti una generazione cui la società non è stata in grado di dare certezze o almeno punti di riferimento e per la quale il futuro è un mare in cui ci si vorrebbe abbandonare, ma che invece obbliga a remare.
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Genere: commedia
Regia: François Ozon
Cast: Romain Duris, Anaïs Demoustier, Raphaël Personnaz, Isild Le Besco, Aurore Clément, Jean-Claude Bolle Reddat
Sinossi: François Hozon è uno dei più raffinati e intelligenti registi francesi (basti ricordare i recenti Nella casa e Giovane e bella) particolarmente sensibile nel raccontare i sentimenti nel loro maturare da sensazione inconscia a consapevole stato d’animo. Una nuova amica è un film affascinante anche per la delicatezza con cui tratta un argomento che in mano a molti altri sarebbe divenuto greve o fonte di un moralismo ‘da quattro soldi’. Laura e Claire (un’Anaïs Demoustier che riesce a trasmettere attraverso il volto l’evoluzione interiore e il progressivo rifiorire della sua femminilità) sono ‘amiche per la pelle’ fin da quando bambine erano divenute compagne di classe. Due vite parallele con la scuola, i primi amori, i fidanzati, il lavoro, il matrimonio fino a quando Laura muore lasciando il marito David con la figlia piccolissima e l’amica che entra in depressione. Un giorno Claire si reca a casa di Laura e trova David che culla la bambina indossando un vestito della moglie. Claire sconcertata dalle sue spiegazioni fugge, ma qualcosa forse curiosità, forse gioco scatta in lei e la fa divenire complice di questa seconda dimensione dell’amico per il quale modella la versione anche esteriormente femminile (Virginia). Il rapporto di complicità diviene sempre più profondo anche perché contraltare del brillante David è uno sbiadito e un po’ noioso marito.
Origine: Francia
Anno: 2014
In sala dal 19 marzo 2015
Note: Una nuova amica è senza dubbio una commedia piacevole, divertente e godibilissima, un meccanismo di precisione in cui si alternano attese, delusioni e momenti di gioia spensierata, ma che lascia un segno nello spettatore e lo induce a porsi domande non banali. Il film di Ozon (liberamente ispirato da The New Girlfriend, un racconto breve di Ruth Rendell), infatti, non è solo un gioco di travestimenti come i celebri Toosie o Victor Victoria in cui i panni dell’altro sesso s’indossano per necessità: qui il desiderio di vestirsi da donna è sempre esistito in David (un ottimo Romain Duris particolarmente spigliato nel ruolo femminile) ed è ‘esploso’ dopo la morte della moglie ridandogli attraverso Virginia la gioia di vivere. Il personaggio più interessante e più complesso è però Claire da sempre vissuta – come mostrano le splendide sequenze iniziali – all’ombra e nel mito dell’amica cui la legava un cordone ombelicale psicologico brutalmente rescisso dalla morte. Tra le due amiche Laura era la più allegra e femminile. Claire esce dalla depressione assecondando David nel suo travestimento e creando Virginia la ‘nuova’ amica con cui andare a far shopping, nei locali o trascorrere un weekend. Claire rivive attraverso David/Virginia il suo rapporto con Laura e paradossalmente attraverso Virginia prende coscienza della propria femminilità. Ozon esplora con levità i meandri della psiche umana e mostra come a volte i travestimenti siano a livello dell’io che indossa maschere che possano nasconderlo anche a se stesso e che comunque il vestire da donna non è sufficiente a mutare i caratteri sessuali.
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Genere: drammatico
Regia: Laura Bispuri
Cast: Alba Rohrwacher, Flonja Kodheli, Lars Eidinger, Emily Ferratello
Sinossi: Le ‘vergini giurate’ ancora oggi esistono realmente (come ha dichiarato Alba Rohrwacher che ne ha incontrata una studiando il suo personaggio) per quanto possa sembrare incredibile agli inizi del terzo millennio. Figura presente nella cultura delle popolazioni montanare dell’Albania, indica una donna che non volendo adeguarsi ai principi di una società fortemente maschilista che la rilega al ruolo di moglie e serva rinuncia alla propria femminilità, pronuncia voto di castità e accetta il codice di comportamento maschile. Ovviamente sceglie anche un nome da maschio e vi costruisce intorno la sua nuova identità. Hana (un’Alba Rohrwacher come sempre intensa e puntuale nell’approfondire il personaggio esaltandone gli aspetti umani) rimasta orfana da bambina è accolta nella casa di uno zio che vive sulle montagne dell’arcaico Kanun in Albania. Cresce insieme alla cugina senza subire discriminazioni se non quelle connesse al suo essere donna (per esempio non può portare il fucile, come invece fanno tutti gli uomini su quelle montagne, né può saper sparare). Con il nome di Mark vive come gli altri uomini della montagna fino a quando non muore lo zio rimasto solo dopo che la figlia era fuggita in Italia con il fidanzato per sfuggire a un matrimonio imposto. Hana/Mark raggiunge la cugina in Italia registrando l’affetto imbarazzato dei parenti. Vivere in una società così profondamente diversa le fa sorgere domande e dubbi.
Origine: Italia, Svizzera, Germania, Albania, Francia
Anno: 2015
In sala dal 19 marzo 2015
Note: Opera prima di Laura Bispuri, Vergine giurata è un film austero senza alcuna concessione né al folklore, né a facili ironie per una figura così lontana dalla nostra cultura. Le sequenze ambientate sulle montagne albanesi hanno il rigore del documentario antropologico e sono scandite da una serie di immagini che per la bellezza dei panorami invitano a recarvisi. Se Hana coinvolge per la sua lotta per vivere da essere libero e titolare di diritti (e non solo di doveri), Hana/Mark fa riflettere per il suo impatto con una realtà così diversa da quella cui era abituata. Sono sequenze che fanno pensare allo shock che devono provare gli emigranti costretti ad abbandonare cultura e tradizioni millenarie per cercare un minimo di sopravvivenza andando in paesi sconosciuti. La regista (coadiuvata dalla sensibilità della Rohrwacher) evidenzia con delicatezza la difficoltà della cugina ormai trapiantata in Italia ad accettare lo status di Hana, imbarazzo espresso dalla rinuncia a spiegarlo alla figlia adolescente che probabilmente di ‘vergini giurate’ non ha mai sentito parlare. Da sottolineare il pudore con cui la Bispuri tratta il ritorno di Hana a uno status femminile. Il film è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Elvira Dones pubblicato da Feltrinelli ed è stato l’unico film italiano in concorso alla Berlinale.
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Genere: noir
Regia: Michaël R. Roskam
Cast: Tom Hardy, Noomi Rapace, James Gandolfini
Sinossi: Nessuna sfida a scagliare la prima pietra poiché nel bar che Bob Saginowski (un ottimo Tom Hardy capace di creare suspense con movimenti minimi del viso o del corpo) gestisce a Brooklyn di pietre ce ne vorrebbe almeno una camionata visti i frequentatori. Bob è un uomo introverso e tranquillo (condizione immediatamente sospetta in un noir) che ama il suo lavoro di barman in cui è aiutato dal cugino Mary (James Gandolfini alla sua ultima apparizione sullo schermo regala un’interpretazione impeccabile nel disegnare l’ambiguità del personaggio), già proprietario del locale che si era fatto soffiare dieci anni prima dalla mafia cecena e alla ricerca del modo per recuperarlo. Il film è l’epilogo di questa storia i cui antecedenti lo spettatore apprende ‘in corso d’opera’, compresi quelli, non proprio da boy scout, del buon Bob che cerca di avvalorare l’immagine da uomo per bene (peraltro lo spettatore attento è messo sull’avviso da un paio di indizi seminati dal regista) curando amorevolmente un pitbull malandato e imbastendo una storia sentimentale con Nadia (Naomi Rapace), vicina di casa con un ex che non si sa se più smargiasso o folle. Nadia, però, è veramente lineare? E il cugino Mary è veramente affezionato a Bob? Finale dallo splendido ritmo e con molte sorprese.
Origine: Usa
Anno: 2014
In sala dal 19 marzo 2015
Note: Gli appassionati di noir non possono perderlo per diversi ottimi motivi: la sceneggiatura premiata a San Sebastian è opera del brillante giallista Dennis Lehane che l’ha tratta da un suo racconto (Animal Rescue) e la regia del giovane belga Michael Roskam che mantiene inalterata la sua verve anche nella patria del thriller affiancando a un ritmo incalzante, ma non ossessivo, alcune riflessioni sulla natura ambigua del male e sulla difficoltà in certi ambienti di tracciare un confine netto tra bene e male (salvo che evangelicamente non si porga l’altra guancia). In definitiva i personaggi più chiari e coerenti sono i rappresentanti della mafia cecena: non presentano né sorprese, né ambiguità. Altro merito di Roskam è di non aver rinunciato a inserire alcune note ironiche che alleggeriscono l’atmosfera senza allentarne la tensione.
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Genere: commedia
Regia: Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli, Martino Ferro
Cast: Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli, Giordano De Plano, Tea Falco, Marco Foschi, Walter Leonardi, Paolo Pierobon, Gianmarco Tognazzi, Daniela Virgilio
Sinossi: La sequenza iniziale è la premessa di un paio d’ore divertenti e, perché no, intelligenti: uno spettacolo, infatti, può essere intelligente anche se con ritmi e trovate ‘goliardiche’. Il buon Minosse ha per secoli svolto senza intoppi e con coscienza il compito di assegnare i peccatori ai diversi gironi dell’Inferno, ma siamo nel terzo millennio e improvvisamente nuovi peccati irrompono con grande successo sulla scena: hacker, stalker… Minosse non riesce nemmeno a pronunciarli, figuriamoci a capire che razza di peccati siano e in che girone inviarli. Disperato chiama Lucifero e dietro minaccia di dimissioni chiede lumi e una ristrutturazione dell’Inferno per adattarlo alle nuove esigenze. Lucifero (un elegantissimo Fabrizio Biggio) ovviamente si rivolge a Dio (ottima l’interpretazione di Paolo Pierobon) che gli promette di intervenire. Il Consiglio dei Santi (esilarante il dibattito) decide di rispedire sulla terra Alighieri che già una volta aveva ben operato. Il malcapitato si trova ‘paracadutato’ in una moderna grande città italiana (pare siano le peggiori) e ovviamente va alla ricerca della promessa guida: un recalcitrante odierno Virgilio. Il viaggio tra i nuovi peccati può cominciare: un esilarante percorso tra fatti, anzi misfatti, che giornalmente incontriamo e a volte compiamo…
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 19 marzo 2015
Note: Dopo tante ore trascorse sugli endecasillabi di Dante, una loro rivisitazione in chiave goliardica è la ‘vendetta’ attesa da molti. Occorre ricordare a chi ‘storce il naso’ per lo ‘spirito goliardico’ che questo può essere più intelligente e incisivo di tante critiche seriose, come storicamente dimostrato a Genova dalla ‘Baistrocchi’, famosa compagnia di studenti universitari (molti amavano più divertirsi che studiare) che ogni anno portavano in scena con grande successo sotto forma di rivista una lettura goliardicamente critica della società. Il bel film di Biggio, Mandelli e Ferro è a volte – ed è giusto che lo sia – irriverente (tali sono tutte le sequenze del Paradiso e la figura stessa di Dio, mai però blasfema), ma non è mai volgare o banale. Poiché le nostre città sono un inferno lo spaesato Dante (Francesco Mandelli dall’aria tra spaurita e stupita) – che sottolinea esprimendosi in versi il proprio essere alieno, come lo sono oggi gli uomini di cultura, in questa società spesso abborracciata e affascinata da false mode – necessita di ‘uno del posto’ che lo guidi nei gironi infernali in cui ci muoviamo quotidianamente. La guida è ovviamente un Virgilio del 2000 (ottimo Fabrizio Biggio) non più poeta del mito delle italiche origini, ma vittima di un sistema infernale che lo rende (se è fortunato) precario (a vita) in un supermercato. Non manca una sagace satira degli attuali miti collettivi come gli i-phone e i selfie: divertente denuncia di quando uno strumento utile diviene ‘tiranno’ del nostro agire. Si ride e ci si diverte molto, ma quando si esce dalla sala sarebbe opportuno fare qualche seria riflessione sui ‘peccati’ indicati dai registi. Chissà che non si possa rendere meno infernali le nostre città.
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LA PRIMA VOLTA (DI MIA FIGLIA)
Genere: commedia
Regia: Riccardo Rossi
Cast: Riccardo Rossi, Benedetta Gargari, Anna Foglietta, Fabrizia Sacchi, Stefano Fresi
Sinossi: Piacevole e simpatico debutto come regista di Riccardo Rossi (anche sceneggiatore e attore) con La prima volta (di mia figlia), gradevole commedia che in modo lieve tratta due aspetti molto seri della vita familiare: la tradizionale (almeno in Italia) gelosia dei padri verso le figlie che vorrebbero sempre ‘bambine’ e l’inadeguatezza di molti genitori a un ruolo difficile da sempre, ma specialmente in un’epoca in cui costumi e mentalità mutano in modo tumultuoso. Il film ruota intorno al dramma personale di Alberto (padre apprensivo e separato) che trovando casualmente il diario dell’unica figlia (la quindicenne Bianca) non resiste alla tentazione di sbirciarlo (gravissima scorrettezza perché la privacy dei familiari compresi i figli non si viola mai) e ne scopre l’imminente decisione di perdere la verginità. Alberto medico meticoloso, maniaco dell’ordine e delle forme e un po’ (molto) noioso entra in paranoia non sapendo cosa fare per dissuadere la figlia a compiere un passo che lui dovrebbe ignorare. Dopo aver vanamente cercato di coinvolgere l’ex moglie (donna in carriera), convince un’amica ginecologa a partecipare a una cena durante la quale con le dovute cautele prospettare alla figlia i pericoli di una prematura attività sessuale cercando tacitamente di dissuaderla. Alla cena, però, partecipano altri due ospiti inattesi…
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 19 marzo 2015
Note: Riccardo Rossi porta in questa sua prima (brillante) esperienza registica la sua capacità di cogliere manie, sfumature comportamentali, paure, incertezze… delle persone che capitano sotto il suo occhio indagatore. È il motivo del suo successo: si trova sempre qualcosa di sé o di una persona che si frequenta nei suoi personaggi. Quanti Alberto ognuno conosce, padri che ritengono un ‘usurpatore’ qualsiasi ragazzo abbia una relazione con le figlie, almeno fino a quando non siano prossime allo zitellaggio? La naturale simpatia del personaggio (suscita anche una certa tenerezza per l’indifesa goffaggine), un cast molto equilibrato con una nota particolare per Anna Foglietta e una notevole raffinatezza non scevra da ironia (per esempio la ‘prima volta’ dell’amica ginecologa) sono gli atout di un’opera che rappresenta una gradevole sorpresa nel panorama del cinema italiano e fa attendere con interesse la ‘seconda volta’ (di Rossi).
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Genere: commedia
Regia: Cristina Comencini
Cast: Angela Finocchiaro, Virna Lisi, Valeria Bruni Tedeschi, Marisa Paredes, Francesco Scianna, Carlo Buccirosso, Neri Marcoré, Toni Bertorelli
Sinossi: Cristina Comencini attraverso la figura (inventata) di Saverio Crispo rende omaggio a una stagione forse irrepetibile del cinema italiano: gli anni sessanta e settanta in cui, accantonato il neorealismo, accanto ai grandi registi e attori nacquero generi divenuti cult come gli ‘spaghetti western’ e la commedia all’italiana. Saverio Crispo non è riconducibile a nessuno dei ‘mostri sacri’ (da Rodolfo Valentino a Marcello Mastroianni) che hanno lasciato una scia di figli, mogli e compagne, ma mutua qualcosa da ciascuno di loro. Per celebrarne degnamente il decennale della scomparsa San Vito dei Normanni (il paesino natale) programma una cerimonia con tanto di lapide da scoprire alla presenza delle Autorità e convegno cui logicamente sono invitati tutti i suoi cari. Si ritroveranno nel palazzo baronale (in cui Crispo è nato) le due mogli (Rita, l’italiana, splendidamente ‘letta’ da Virna Lisi e Ramona, la spagnola fatta vivere in tutte le sue sfaccettature da Marisa Paredes) e le cinque figlie (l’italiana, la spagnola, la francese, la svedese e la statunitense, tutte di madre diversa) cui probabilmente si dovrebbe aggiungerne una sesta (la ragazza delle pulizie). Film al femminile sviluppa con un sottile filo d’ironia il gioco a incastro tra i ricordi delle mogli (pur con qualche richiamo ad antichi rancori sopiti dal tempo e dalla morte) e la nostalgia delle figlie (psicologicamente interessante una certa contrapposizione tra le figlie nate da matrimonio e le altre) che questo padre hanno conosciuto poco e mitizzato molto, in realtà bello e gran seduttore, ma anche vanesio, traditore e superficiale. Film delicato e dai toni sommessi con momenti di grande spessore umano e con un’idea geniale: per la celebrazione del ricordo di Saverio Crispo la Comencini ha ricostruito (ovviamente con Crispo protagonista) spezzoni di film realmente esistiti. Le figure maschili sono poche e marginali, fra queste spicca quella di Pedro (lo stunt, l’ottimo Lluís Homar) che si rivela come chi più di tutti conoscesse Saverio.
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 19 marzo 2015
Note: Sono molti i motivi per vedere questo bel film, ma uno si staglia sugli altri: è l’ultima interpretazione di Virna Lisi, una delle più grandi attrici nella storia del cinema italiano. Nessuno ammirando l’equilibrio con cui ha reso il suo non facile ruolo (Rita, la prima moglie) e la bellezza e la bravura rimaste tali nonostante i 78 anni riesce a pensare che Virna non è più tra noi. È Rita che tiene le fila della riunione che in certi momenti – tra un ricordo nostalgico e una rivendicazione – assume l’aspetto di una psicoterapia di gruppo in cui ciascuno finisce con il riesaminare la propria vita e il proprio passato con occhi diversi. Latin Lover rievoca una stagione non solo del cinema, ma anche della società italiana: oggi la guardiamo con un po’ di nostalgia, quasi simbolo di un’epoca felice che si è infranta contro le asprezze di fine secolo. Come tutti i ricordi-sogno Saverio Crispo ha tante verità quante sono le persone che l’hanno conosciuto e amato: sono tutte verità condizionate dai ricordi e dall’amore e forse l’unica che lo inquadra perfettamente è – nelle belle sequenze conclusive – la figlia americana che non l’ha mai conosciuto, ma solo visto in modo fugace. Nel film appare anche un critico cinematografico cui spetterebbe il compito di raccontare Saverio Crispo: una figura inquietante per quanto è noioso il suo eloquio di dotte banalità, quasi un… becchino del cinema.
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Genere: commedia
Regia: Eric Lartigau
Cast: François Damiens, Louane Emera, Luca Gelberg, Karin Viard, Éric Elmosnino
Sinossi: La famiglia Bélier è una delle migliori commedie francesi protagoniste di questa stagione cinematografica: delicatissima, garbata e deliziosa, ma anche pungente, critica e problematica. I Bélier (padre, madre, una figlia sedicenne e un ragazzino più giovane) vivono in un paese agricolo della Loira, hanno una fattoria e producono formaggi. Tutto normale? No, sono tutti sordomuti tranne la sedicenne Paula (un’eccezionale Louane Emera) che quindi fa da tramite tra la loro realtà e il resto della società traducendo dal linguaggio dei segni a quello della parola e viceversa. Una prima problematica, evidenziata quasi sottovoce, è che per le persone con handicap i ‘diversi’ sono gli altri (la madre a un certo punto dice di aver percepito come disgrazia la nascita di una figlia che parlava e sentiva): tener presente questa realtà per quanto possa sembrare assurda per noi ‘normali’ permetterebbe di migliorare il modo con cui ci si rapporta reciprocamente. Paula è sensibile e premurosa, frequenta con successo il liceo e ‘si fa in quattro’ per aiutare la famiglia nella fattoria e sui mercati dove vendono i formaggi, ma un giorno il professore di canto (uno strepitoso Éric Elmosnino) scopre che la sua voce è un autentico dono divino e ha enormi possibilità: le propone quindi di partecipare a un concorso di Radio France per essere ammessa alla miglior scuola parigina di musica. Paula è combattuta tra il desiderio di tentare e di ‘spiccare il volo’ verso una propria vita e l’opposizione dei genitori (situazione peraltro normale anche per famiglie con minori problematiche: i figli non dovrebbero crescere mai). In un crescendo di situazioni ironiche o commoventi il film si avvia verso le splendide sequenze conclusive.
Origine: Francia
Anno: 2014
In sala dal 26 marzo 2015
Note: La famiglia Bélier sta riscuotendo in Francia un enorme e meritato successo di pubblico che peraltro si riconosce nell’atmosfera generale e in molti particolari della società di provincia (si pensi all’ironia che caratterizza i flash della campagna elettorale). Nel cinema francese raramente la commedia è solo evasione dai problemi della società, magari abbandonandosi a quelle battute più o meno volgari che suscitano l’immediata risata del pubblico (almeno in Italia): rappresenta invece un modo per porre con tono leggero e delicato problemi seri alla riflessione dello spettatore e il film di Eric Lartigau ne tratta almeno due: i rapporti in famiglia e nella società dei ‘diversi’ (qualsiasi sia la causa) e l’autonomia dei figli nelle scelte importanti. Una riflessione che sorge spontanea vedendo il film è pensare al mondo di silenzio in cui vivono i sordomuti e all’essenzialità delle loro conversazioni. Molto spesso nelle commedie francesi il livello della recitazione è elevato: in La famiglia Bélier si è in presenza di un cast eccezionale dal piccolo Luca Gelberg (Quentin, il fratellino) realmente sordomuto a François Damiens (ottimo interprete del burbero e rude padre) e a una straordinaria Karin Viard (la vivace e un po’ squinternata madre) che hanno saputo recitare in modo impeccabile utilizzando unicamente il linguaggio dei segni. La grande rivelazione però è Louane Emera (giustamente vincitrice del César, l’Oscar francese, per la Migliore Rivelazione) per la naturalezza e l’intensità con cui recita sia con la parola sia con i segni: una pagina memorabile è quando canta Je vole (di Michel Sardou cantante molto amato in Francia dagli anziani) traducendo i versi nel linguaggio dei gesti per farla capire alla famiglia. Un momento emozionante.
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Genere: drammatico
Regia: Jean-Jacques Annaud
Cast: Shaofeng Feng, Shwaun Dou, Ankhnyam Ragchaa, Yin ZhuSheng
Sinossi: Gli ampi panorami della Mongolia fanno da scenario alla duplice storia raccontata da Annaud: quella delle tribù nomadi e del loro rapporto con il lupo e la natura e quella personale dello studente Zhen. Ai tempi della Rivoluzione Culturale (movimento ideologico-politico che alla fine degli anni sessanta del Novecento fu imposto in Cina dal presidente Mao Zedong), Chen Zhen (Shaofeng Feng) e Yang Ke (Shwaun Dou), due studenti di Pechino, sono inviati nelle steppe della Mongolia Interna per educare una tribù nomade e insegnare la lingua cinese. Ben presto Chen Zhen il più sensibile dei due ragazzi capisce di aver lui molto da imparare dalla saggezza di quelle popolazioni e conosce una triste realtà: l’uomo con la sua bramosia è peggio dei rapaci (uccide gli animali, prende le pelli e ne abbandona i cadaveri, mentre i lupi uccidono per nutrirsi) e sta distruggendo sia l’equilibrio naturale sia il rapporto con il lupo. Zhen rimane turbato dall’ordine statale di uccidere i cuccioli di lupo arrivata la primavera e trovato un cucciolotto decide di salvarlo e di addomesticarlo, conscio dei rischi di infrangere la legge. La sua scelta è invisa ai nomadi che temono la vendetta del branco e ovviamente ai rappresentanti del governo…
Origine: Cina, Francia
Anno: 2015
In sala dal 26 marzo 2015
Note: L’ultimo lupo è tratto da un libro in parte autobiografico di Jiang Rong (edito in Italia con il titolo di Il totem del lupo) pubblicato nel 2004, passato inosservato alla censura e poi divenuto un fenomeno letterario (l’opera più venduta in Cina dopo il Libretto rosso testo sacro della Rivoluzione Culturale). La grande popolarità del volume è dovuta anche ai gravissimi problemi di inquinamento e ambientali con cui in questi anni si trova a convivere il popolo cinese. Il film costato circa 40 milioni di dollari, quasi tutti stanziati dalla Cina, ha avuto una gestazione lunga: basti pesare che per realizzare le molte sequenze con i lupi è stato necessario attendere tre anni che i cuccioli fossero addestrati durante la crescita dal canadese Andrew Simpson (per l’occasione trasferitosi in Cina) e che altre scene sono state rese possibili dalle moderne tecnologie che hanno permesso di cancellare dai filmati i 25 addestratori o di fare riprese aeree con i droni (con un uso senz’altro migliore di quello militare). Molto interessante è l’aspetto antropologico che porta lo spettatore a contatto con usi e pensiero di genti che probabilmente non avrà mai occasione di incontrare e uno sguardo alla cultura di queste antiche popolazioni nomadi (anch’esse come tanta natura vittime della ‘civiltà’) porta a scoprire per esempio il rapporto complesso formato da paura e venerazione che intercorre con i lupi. L’ultimo lupo esiste in 3D, ma anche in versione normale è spettacolare, affascinante, epico e ha il merito di dimostrare che si può realizzare un ‘film epico’ anche al di fuori del mondo hollywoodiano e con soggetti che investono problemi con cui le persone comuni si trovano a dover lottare quotidianamente. In occasione del film il WWF – oltre a fornire informazioni interessanti sulle ‘favole’ sorte intorno ai lupi – chiede il sostegno al progetto “Adotta un lupo” (info sul sito wwf.it/lupo).
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Genere: drammatico
Regia: Zhang Yimou
Cast: Gong Li, Chen Daoming, Zhang Huiwen
Sinossi: Realizzato da uno dei Maestri che hanno reso famosa la cinematografia cinese in Occidente, Lettere di uno sconosciuto pur avendo momenti di grande intensità non ha quella commovente incisività di altre sue opere (Lanterne rosse per fare un esempio). Il tema trattato è di portata storica: la Rivoluzione Culturale voluta da Mao Zedong contro altre fazioni del partito comunista e la distruzione umana provocata negli individui e nelle famiglie (come sempre accade quando il Potere domina con il ricatto e la paura). La chiave di lettura scelta è quella ‘privata’ delle reazioni di due donne (madre e figlia) al Potere. Lu Yanshi è un professore vittima della repressione contro gli intellettuali ‘borghesi’. Riuscito a fuggire dal campo di ‘rieducazione’ in cui è stato rinchiuso, si mette in contatto con la famiglia: le reazioni sono diverse. La moglie (un’eccezionale Gong Li protagonista di molte opere di Zhang Yimou) cerca di aiutarlo nonostante le minacce delle autorità, mentre la figlia Dan Dan (Zhang Huiwen), inquadrata nel regime, denuncia padre e madre per ottenere il ruolo di prima ballerina (che non le veniva dato perché figlia di un dissidente). La parte migliore e più coinvolgente del film si conclude con le drammatiche sequenze della stazione. La seconda parte con il ritorno di Lu Yanshi a casa (Deng Xiaoping era succeduto a Mao e molti prigionieri politici erano stati rilasciati) è illuminata da un’immensa interpretazione di Chen Daoming, ma purtroppo scivola su toni troppo melodrammatici: la moglie colpita da amnesia per tutto quello che riguarda il passato non riconosce più il marito, la figlia cacciata di casa dalla madre ha abbandonato la danza e lavora come operaia. Lu Yanshi trova solo macerie umane…
Origine: Cina
Anno: 2014
In sala dal 26 marzo 2015
Note: Zhang Yimou è uno dei più famosi registi cinesi fin da quando nel 1987 stupì il mondo vincendo al Festival di Berlino l’Orso d’oro con Sorgo rosso seguito nel 1991 dal Leone d’argento al Festival di Venezia con Lanterne rosse, opere del periodo in cui non era molto amato dal regime. Lettere di uno sconosciuto – presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2014 e ispirato al romanzo The criminal Lu Yanshi della scrittrice Yan Geling – segna il ritorno del regista a temi intimi e politici (dopo anni dedicati a film epici di arti marziali) e alla collaborazione con Feng Wanyu e Chen Daoming la cui interpretazione è uno dei punti di forza del film e motivo sufficiente per recarsi a vederlo. Splendida e profondamente commovente l’inquadratura finale. Accanto all’aspetto intimistico vi è anche una molto sommessa lettura politica: Gong Li è la Cina che ha superato il trauma della Rivoluzione Culturale, ma ha rimosso tutto quanto è relativo a quel periodo. In questa chiave ha un significato profondo la sequenza in cui Lu Yanshi va a cercare il funzionario che aveva perseguitato lui e la moglie e viene a saper che è finito in un campo di lavoro. La ruota gira, ma quando la democrazia manca i sistemi non cambiano. Le vicende di una singola famiglia sono, quindi, la proiezione della storia del Paese e il tono dimesso adottato dal regista rende perfettamente l’idea di un’esistenza dominata da una tristezza individuale e collettiva.
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Genere: animazione
Regia: Tim Johnson
Sinossi: Ispirato dal romanzo per ragazzi Quando gli alieni trovano casa di Adam Rex, il nuovo film prodotto dalla Dream Works racconta le simpatiche e rocambolesche avventure di Tip e Oh. Si è in presenza di un caso di migrazione interplanetaria: i Boov (la popolazione cui appartiene Oh) sono stati costretti ad abbandonare il pianeta d’origine e cercano di costruirsi una nuova patria occupando la Terra da cui hanno cacciato gli abitanti originari. Nulla di nuovo sotto il sole: come non pensare agli emigrati europei che sbarcati in America hanno relegato gli indigeni in riserve? Oh è un vivace extraterrestre che appartiene ai Boov, ma è anche curioso e un po’ pasticcione e riesce a combinare qualche guaio di troppo per cui deve darsi alla fuga per non incorrere nelle ire dei suoi. Nel suo vagare pieno di timori (in cui però non perde ottimismo e allegria) incontra Tip, una giovane e intraprendente terrestre. Riusciranno i due a vincere le diffidenze e a operare per un futuro migliore?
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 26 marzo 2015
Note: vedi recensione
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Genere: commedia noir
Regia: Giorgia Farina
Cast: Micaela Ramazzotti, Pamela Villoresi, Adriano Giannini, Libero De Rienzo, Elena Sofia Ricci, Iaia Forte, Tommaso Ragno, Monica Nappo, Erica Blank, Thony
Sinossi: La trentenne regista Giorgia Farina crea un personaggio abbastanza raro nel cinema italiano: la donna vendicatrice, dando alla sua opera un taglio più drammatico e meno comico o melò rispetto ai pochi esempi del passato (il pensiero va a La ragazza con la pistola con Monica Vitti o a Spara che ti passa con Francesca Neri). Anita (una caustica Micaela Ramazzotti) è una donna che vuole la carriera senza rinunciare però all’amore e ai figli, contrariamente al luogo comune (e spesso reale) per cui carriera e famiglia sono alternative. Tutto pare procedere per il meglio fino a quando non resta incinta del capo sposato (Paride interpretato da Adriano Giannini) che per festeggiare l’evento la licenzia immediatamente. Metabolizzato lo shock, Anita si attiva per mettere in atto una raffinata vendetta trovando conforto e collaborazione in un gruppo di donne messe a dura prova dalla vita, ma decise a non arrendersi e nel timido avvocato Biagio (un ottimo Libero De Rienzo). I personaggi – volutamente un po’ sopra le righe – è come se indossassero una maschera che permette una loro immediata lettura per cui costumi e acconciature sono stati accuratamente studiati dalla regista: Anita per esempio indossa quasi sempre geometrici tailleur di Fendi e l’aspetto severo è completato da una pettinatura che ricorda quelle degli ‘eroi’ di Blade Runner. E Napoleone? È il classico pesciolino rosso nella boccia: un simbolo.
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 26 marzo 2015
Note: Giorgia Farina è al suo secondo lungometraggio dopo aver esordito con il notevole successo di Amiche da morire in cui ha creato personaggi femminili che scardinano gli usuali stereotipi femminili. Anche Anita di Ho ucciso Napoleone è frutto dell’ottica che ribalta l’idea latina che al cinema (o al teatro) i personaggi femminili non possano essere ‘cattivi’ o socialmente scorretti’ uscendo da canoni comportamentali predefiniti. Regista trentenne, la Farina ha mostrato l’aspirazione a stare dietro la macchina da presa già a dieci anni quando le ragazzine in genere sognano di fare le attrici. A diciassette anni ha frequentato a Londra la scuola di cinema (per mantenersi faceva l’elettricista sui set, anticipando le sue eroine in un ‘ruolo’ usualmente maschile) e successivamente si è recata a New York avendo vinto una borsa di studio alla Columbia University che ha prodotto i suoi primi corti. Ha potuto quindi formarsi nelle due città più vive sotto l’aspetto culturale e intellettuale e con modelli di vita, nel bene e nel male, decisamente diversi dai nostri che affondano le radici in antichi tabù e convenzioni (anche nei piccoli fatti della vita). Deriva da queste sue esperienze la capacità di creare un cinema al femminile inedito per le tradizioni italiane, ribelle a un ‘corretto conformismo’ e che sfugge a ogni schema nei ruoli e nei generi. Ho ucciso Napoleone supera brillantemente il test della seconda opera non deludendo chi ha amato Amiche da morire e rappresentando un’interessante esperienza per chi vuol vedere un bel film italiano diverso dai soliti standard.