«A questo punto se non siamo Tric, che cosa siamo?», lo chiede un affranto Daniele Russo che, insieme al fratello Gabriele e alla sorella Roberta, ha espresso il proprio disappunto per le recenti decisioni del Ministero dei beni e delle attività culturali. Il teatro, che Tato Russo riaprì nel 1986 e che i tre figli da cinque anni gestiscono offrendo stagioni teatrali tra le più interessanti e variegate del panorama napoletano, non è stato considerato dal ministero di “rilevante interesse culturale”.
La qualifica di Tric (teatro di rilevante interesse culturale, secondo il decreto “Valore cultura”) è stata negata ad una sala che negli anni ha ospitato e collaborato con artisti del calibro di Emma Dante e Pippo Delbono, che si è speso per progetti coraggiosi e impegnativi come la messa in scena di “Arancia Meccanica”, che ha aperto una libreria con una casa editrice di Scampia, la Marotta&Cafiero, creando un ponte tra centro e periferia, che si è aperto ai giovani abbassando l’età per l’abbonamento (risparmiano gli under 29, mentre in molti teatri vengono considerati giovani gli under 26) e ricevendo riscontri positivi dal pubblico.
Una sala in cui la cultura si respira in ogni angolo come può non essere di “interesse culturale”?
Nonostante la delusione i tre continuano la loro offerta di qualità, «il mancato riconoscimento è un incidente di percorso che non ci ferma», dicono i fratelli Russo, e lanciano un appello alle istituzioni cittadine che hanno prestato molta attenzione alla sorte del teatro Stabile di Napoli (che dal Ministero ha avuto la qualifica di teatro nazionale) dimenticandosi di una bella realtà come il Bellini che merita a tutti gli effetti di essere riconosciuto “di rilevante interesse culturale”.
Intanto la stagione prosegue con spettacoli importanti come “Una pura formalità”, tratto dal film di Giuseppe Tornatore (1994) che contava tra i protagonisti Gérard Depardieu, Roman Polanski e Sergio Rubini. In scena ritroviamo una coppia collaudata, ossia Glauco Mauri (che firma anche la regia) e Roberto Sturno. Dal film la riduzione teatrale voluta da Glauco Mauri recupera tutta l’atmosfera vaga e tetra già a partire dall’inizio. La storia è quella di una lunga notte misteriosa in cui il colloquio tra un uomo in fuga e un commissario di polizia ci aiuta a comprendere alcuni aspetti della vita. La scena ricrea uno strano commissariato di polizia dove nulla è lineare e dove il tempo sembra sospeso.
«Come può esistere un orologio senza lancette?» si chiederà il protagonista. Strane scritte alle pareti suggeriscono che ci troviamo in una zona di passaggio, dove visitatori occasionali hanno lasciato una firma, una scritta, un’impronta («la vita è una fuga da qui», vi si legge). Onoff vi ci piomba nel cuore della notte, scortato dagli agenti. Fermato e condotto in commissariato perchè vagava nel bosco privo di documenti, insomma un riconoscimento, una “pura formalità”. Ma in quella stessa notte un delitto è stato commesso e si cerca il responsabile.
Alle domande incalzanti del commissario l’uomo però sembra non saper rispondere. Il recupero della memoria («ricordare è un po’ come morire» si dirà sul palco) è il perno del racconto in cui si susseguono momenti di suspense e di tensione emotiva che tengono alta l’attenzione del pubblico. Momenti di tale bellezza dovuti alla bravura degli interpreti. Lo scambio tra Glauco Mauri e Roberto Sturno, nei panni del commissario e dello scrittore, è quasi un duello: da una parte l’acume del primo, dall’altra la fragilità del secondo alle prese con “una vita da ricordare”.
Una ricchezza scenica tale che riesce a portare a teatro quell’inquietudine tipica di un vero e proprio thriller, ma dell’anima come piace a Tornatore. Tante le domande, tantissimi anche gli applausi.
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con
Glauco Mauri
Roberto Sturno
Giuseppe Nitti
Amedeo D’Amico
Paolo Benvenuto Vezzoso
Marco Fiore
scene
Giuliano Spinelli
costumi
Irene Monti
musiche
Germano Mazzocchetti
versione teatrale e regia
Glauco Mauri
produzione
Compagnia Glauco Mauri – Roberto Sturno
in collaborazione con
Fondazione Teatro della Pergola