Uscito dalla fertile creatività di Reginald Rose (Manhattan/New York 1920 – Norwalk/Connecticut 2002), scrittore, commediografo e sceneggiatore molto in voga e richiesto da cinema e televisione negli anni ’50, 12 uomini arrabbiati (Twelve angry men il titolo originale divenuto in italiano La parola ai giurati) – libro (400 mila copie vendute appena edito nel 1954), testo teatrale, telefilm, film nel 1957 per la regia di Sidney Lumet (Oscar alla carriera) con lo straordinario Henry Fonda e remake nel 1997 diretto da William Friedkin con Jack Lemmon – rende famoso in tutto il mondo il suo autore che si è ispirato a un’esperienza da lui intensamente vissuta quando è chiamato a fare parte di una giuria popolare a New York.
La versione teatrale con l’ottima regia di Marco Vaccari ci restituisce il pathos della vicenda con situazioni e sentimenti espressi in modo equilibrato e pulito senza sbavature o eccessi: risulta così esaltata la forte valenza democratica che attraversa l’opera in virtù della partecipazione al giudizio di rappresentanti del popolo i quali in genere non accolgono entusiasticamente tale ‘sorte’ come quelli cui è affidato l’arduo compito di stabilire se un diciottenne sia colpevole di parricidio e se quindi gli spetti la pena capitale.
Un’esperienza pregna di responsabilità con un iter drammatico anche per il clima che si viene a creare tra i giurati, persone di età, cultura e formazione diverse, dibattuti tra il desiderio di liberarsi rapidamente della gravosa incombenza e tornare al rassicurante tran tran quotidiano e la responsabilità del giudizio da emettere.
Spesso la fretta gioca brutti scherzi e nel nostro caso tutto sembra già essere deciso dal precedente iter nell’aula del tribunale per cui 11 giurati hanno già la sicurezza in tasca sul verdetto supportati da prove all’apparenza inoppugnabili, ma l’importuno – o ‘rompiballe’ che dir si voglia, si può supporre che in tale personaggio Rose adombri se stesso – di turno, il giurato 8 (Marco Vaccaro attore convincente oltreché regista), trasmette con sagace e soppesata abilità il tarlo del dubbio sulle singole prove che riesaminate con oculatezza possono mutare la loro rilevanza fino a ribaltare il giudizio finale che deve essere unanime.
Un’appassionante e intensa analisi di quanto succede a parte chiuse in una situazione difficile, al limite della paranoia soprattutto se un caldo inclemente si aggiunge agli altri disagi, disamina che colpisce per la capacità di disvelare in poco tempo caratteri e problematiche di persone fra loro sconosciute e avvince il pubblico non solo appassionandolo sull’esito, ma facendolo riflettere sulla difficoltà del giudicare in modo quanto più possibile oggettivo da parte degli uomini la cui esistenza è connotata per natura da insicurezze, contraddizioni, timori, angosce, pregiudizi, discriminazioni…
Molto bravi tutti gli attori nelle singole caratterizzazioni a cominciare da quelle più razionali del Presidente impersonato dal valido Carlo Randazzo e del Giurato 4 interpretato dal professionale Marino Zerbin fino a quelle più problematizzate da scandagliare con attenzione per apprezzarne e goderne le molteplici sfumature.