E la cantatrice calva? È la domanda finale che genera più o meno il panico nel bislacco gruppo dei personaggi che calcano il palco e che viene brillantemente schivata con un’astuta risposta (Si pettina sempre allo stesso modo) e porta per la prima (e unica) volta nel testo porta l’attenzione al personaggio che dà il titolo a La cantatrice calva, capolavoro di Eugène Ionesco, e testo di spicco del teatro dell’assurdo.
È in scena al Teatro Vascello di Roma (ultima replica il 4 aprile) l’ultima regia di Massimo Castri, scomparso nel 2013, che si confrontava per la prima volta, e con successo, con il teatro di Ionesco dopo il Premio UBU nel 2010 per Finale di partita di Beckett.
La regia di Castri è quasi invisibile, all’ossequioso e inappuntabile servizio di un meccanismo che funziona alla perfezione. Il ritmo, nonostante l’apparente monotonia e inutilità dei dialoghi reiterati, è sostenuto e sempre altissimo, le sfumature vocali e i registri degli attori, Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio, Francesco Borchi, ridotti a marionette senz’anima e senza passione, quasi degli automi agghindati, sono semplicemente perfette. La cantatrice calva poi non ha nulla a che fare con il testo perché protagonisti della pièce sono due anonime coppie di borghesi inglesi, gli Smith (Valentina Banci e Mauro Malinverno) e i Martin (Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone) che non riescono a comunicare davvero, ma si limitano a scambiarsi frasi inutili e convenzionali, assolutamente prive di qualsiasi significati, imprigionati in un susseguirsi di situazioni paradossali senza risparmiare il coinvolgimento del capitano dei pompieri (Francesco Borchi) e della domestica (Sara Zanobbio). Al di là dell’apparente inutilità dei dialoghi (un po’ accade nel cinema il testo infatti regala non poche riflessioni offrendo non straordinaria lungimiranza uno spaccato della deriva della società che dal 1950 ad oggi continua a procedere a ritmi inarrestabili: si dice che Ionesco, che stava cercando di imparare l’inglese, avesse preso spunto dagli slogan e dalle frasi dei dialoghi dei testi didattici arrivando a concepire la dinamica di una pièce in cui la comunicazione regredisce al non sense. E se le scene di Claudia Calvaresi con tappeti, divani e il grande orologio presentano un ineccepibile salotto della borghesia londinese, è anche vero che fin dai primi dialoghi l’autore opera un’inaspettata e spiazzante rottura con il teatro borghese, tutto realismo e drammi psicologici. Per Ionesco poi la rottura con la tradizione passa attraverso la provocazione, l’assurdo e il non sense di battute spesso apparentemente senza soluzione di continuità e con fare meccanico e isterico, ma che smascherano i drammi della società mostrando l’incomunicabilità nelle relazioni, la falsità di rapporti, la noia della routine e della quotidianità, e tutto il tremendo fardello di un’esistenza che sembra non riuscire a trovare un senso tanto che le due coppie borghesi appaiono agli occhi del pubblico così vuote e prive di personalità da risultare l’una interscambiabile e all’altra.