Questa commedia di Eduardo, meno conosciuta dei testi classici della sua drammaturgia, è un libero adattamento de La fortuna si diverte di Athos Setti, scritto nel 1936 che contiene in nuce molte tematiche sviluppate poi in maniera compiuta e organica nell’opera omnia: l’agnizione, la smorfia e il gioco del lotto, i fantasmi, i sogni, la superstizione, l’avidità dei parenti, il rapporto con i defunti, la vita nel basso.
Pasquale Grifone fa il facchino e la sera beve, preferendo la bottiglia alla compagnia della petulante moglie e della dimessa figlia. Nel vino annega le sue sconfitte e dal vino affiorano visioni celestiali in cui la vita è leggera e sfumata d’azzurro. In questo mondo idilliaco una notte gli va incontro Dante Alighieri, il cui busto campeggia a casa sua davanti al tavolo da pranzo, amico silenzioso che non lo biasima quando rientra alticcio.
Dante gli da quattro numeri da giocare al lotto.
Questo è il sogno che Pasquale racconta ai familiari al rientro dal suo girovagare notturno, imprimendo il sigillo alla loro incredulità: i numeri contengono tutti gli elementi per individuare la data della sua morte, cioè 8 mesi dal sogno, a 52 anni, dopo 90 giorni dal compleanno, alle ore 13.
La vincita si verifica ed è milionaria. Seicento milioni dell’epoca!
Nel secondo atto va in scena la seconda vita. La scenografia di fondo di Bruno Buonincontri che nel primo sembrava un’anonima vetrata di contenimento, adesso diventa un’opulenta vetrata liberty che dà luce a un salotto di neo arricchiti in cui il maggiordomo annuncia l’arrivo degli ospiti (luci di Stefano Stacchini).
Intorno alla testa di Dante brilla l’aureola e il busto è circondato da lumini. La signora Filomena in sgargiante tailleur a fiori (i costumi azzeccatissimi sono di Silvia Polidori) si muove a piccoli passi ondeggiando sotto l’alta crocchia di capelli e parla affettatamente in una sorta di idioma che ritiene sia l’italiano dei signori. La figlia tutta azzimata è fidanzata con un presunto americano. Perfino la vicina viene in visita col cappello.
Il povero Pasquale è sempre più desolato all’avvicinarsi della data fatidica e non si rassegna a quella “schifezza di famiglia” simbolo delle conflittualità delle famiglie eduardiane, autenticamente teatrali e coralmente contornate dalla presenza dei vicini. I familiari sostengono che la superstizione è cosa da poveri. E loro, che poveri sono stati, il giorno fatale si vestono a lutto. Il pover’uomo affranto si accascia sulla poltrona quando gli orologi segnano le tredici. Giunto il medico, egli si rianima e invita il dottore a rimanere a pranzo, ma il dottore non può, ha un impegno alle tredici e mancano solo cinque minuti …
Lo spazio scenico dell’ambientazione domestica è collocato su una pedana inclinata perimetrata da un piccolo camminamento che ogni personaggio percorre dal fondo verso la ribalta entrando in scena dal lato opposto, quasi un’epifania prima di entrare nel suo ruolo. Quando Luca De Filippo effettua questo percorso e inizia il colloquio con la moglie, un piccolo sussulto: le movenze, le tonalità e il timbro vocale sono di Eduardo.
La regia di Armando Pugliese trova le giuste caratterizzazioni per tutti i personaggi, leggermente grotteschi e macchiettistici come nella tradizione popolare napoletana: Carolina Rosi perfetta nei panni della sussiegosa Filomena, poi Nicola Di Pinto, Massimo De Matteo, Giovanni Allocca, Carmen Annibale, Gianni Cannavacciuolo, Paola Fulciniti, Viola Forestiero. Le musiche del maestro Piovani coadiuvano la regia assecondando i diversi momenti di pathos.