di Anton Cechov
Regia: Pierpaolo Sepe
Con: Paolo Serra, Gaia Aprea, Federica Sandrini, (voce registrata) Sara Missaglia, Giacinto Palmarini, Andrea Renzi, Diego Sepe, Fulvia Carotenuto
Scene: Carmine Guarino
Costumi: Gianluca Falaschi
Luci: Cesare Accetta
Produzione Teatro Stabile Napoli
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Ci sono lunghi tavolacci rossi in questa ferrea scatola incastrata nel palcoscenico del Mercadante e che ne perimetra tutta quanta la superficie. Un tonfo esplode alle nostre orecchie nel mezzo di un silenzio pesante, un’eco ne imita il suono sordo, quasi come se non ci fosse abbastanza ossigeno. Grigiognole le pareti, un’unica porta – quella d’emergenza – si aprirà solo per assolvere alle azioni previste dalla drammaturgia lasciando intravedere non una campagna, non un pioppo, ma una vaga sagoma di bottega. Dei pannelli sulle teste degli attori sono a mezzaria, caleranno prima trasversalmente, poi di sghembo dotati di una trasparenza in seguito opaca e liquefatta, atta a deformare – frammentandolo – lo stato di (non) attesa dei personaggi. Ora, se un tonfo pesante irrompe in un silenzio asfissiante, un inconsulto trenino e girotondo interrompono la tremenda immobilità. Dopo poco una luce giallastra sulla destra ci convincerà che si tratta di un unico sole artificiale mentre Marina (Fulvia Carotenuto), la balia apre il primo atto, suggerendo che anche ciò che è “fuori” rientra in questa dimensione fisica e chiusa.
Non stiamo parlando di Beckett, ma di Cechov e nello specifico di Zio Vanja di Pierpaolo Sepe il quale dichiara (sul libretto di sala)“Alla fine sembra trionfare la profonda immoralità delle nostre esistenze, l’incapacità di risollevarsi e di raggiungere una felicità, seppur apparente, e Cechov pare deriderci, raccontandoci come esseri patetici, ridicoli, mortificati e dolenti” Parole importanti, necessarie per comprendere perché sceglie di destinare i protagonisti dell’opera ad un ambiente claustrofobico, atemporale, ad una concretizzazione fisica e materiale della condanna per l’incapacità ad esser felici. Esattamente siamo in una sorta di carcere, persino i dialoghi più importanti (ad esempio fra Elena Andreevna e Astrov, III atto) avvengono frontalmente al tavolaccio come se stessimo assistendo a quello fra un prigioniero e chi lo viene a trovare. Ancora; Marija Vasil’evna Vojnickaja, madre di Vanja, non compare fisicamente, la voce viene trasmessa attraverso una ricetrasmittente. Cosa può dirci? Forse la voce materna è la carceriera di Vanja, costringendolo ad assecondare ancora Serebrjakov sino all’ultimo? Lo spettro di un passato sciupato, di cui nel solo presente se ne raccolgono le insopportabili conseguenze?
In questa tetra ed opprimente dimensione viene posta la drammaturgia dei quattro atti dell’opera; l’azione spesso è su due piani nel senso che si ha uno sfasamento trasversale dell’assito, cosicché una scena successiva all’altra si susseguono stabilendo un confine spazio-temporale con l’utilizzo dei tavoli lunghi che ora trasversalmente, ora orizzontalmente semplificano gli interni della tenuta premettendone il valore più che intimistico, astratto; Serebrjakov (Paolo Serra) è per gran parte dello spettacolo relegato in fondo alla scena, qui c’è il suo spazio mentre le dinamiche degli altri personaggi avvengono alla ribalta. Si ha perciò una netta divisione, un’ulteriore tendenza a murare invisibilmente le zone d’azione anche con l’aiuto dei pannelli. Inoltre, è chiaro che ciò che interessa al regista non è la dimensione storico-economica originaria, spettro di una Russia che non c’era già più ai tempi della composizione di Zio Vanja, ma un processo d’interiorizzazione della storia in sé nei singoli attori-personaggi che divengono emblemi di eterni conflitti intimi. Non a caso si predilige una recitazione smorzata nella sua canonicità, sciatta, che accetta inclinazioni di accenti che – attenzione – non ha nulla d’elegiaco. Inoltre la centralità del singolo interprete è resa mediante i costumi che incasellano ciascuno nella rispettiva natura: esempio fra tutti è Elena (Gaia Aprea), la bellissima e giovane moglie del professore, amata da Vanja (Giacinto Palmarini) e da Astrov (Andrea Renzi), di cui il suo grande e signorile cappello, il poncio a strisce, i tacchi a spillo rossi e un paio di eleganti occhiali determinano l’astrazione della relativa bellezza, oppure si pensi alla maglia rigata nero e bianco di Telegin (Diego Sepe), il proprietario terriero immiserito e in qualche modo dipendente dalla famiglia di Vanja, anch’egli simbolicamente incarcerato nella sofferenza che trasuda nella casa.
Interferenze sonore dovute alla modalità d’amplificazione ci convince della pesantezza che ogni personaggio si trascina, lentamente, sospendendosi nei lunghi silenzi o collocandosi a margine, come nel secondo atto in cui i pannelli di sghembo riflettono le varie presenze che siedono dietro, immobili, mentre al centro della scena si sta consumando la scena prevista. Se l’indolenza che sottace nei testi di Cechov si accompagna al leggero humour delle battute la cui apparente banalità ricade leggera all’udito di chi guarda e ascolta, nell’allestimento di Sepe tale connubio spesso non va a buon fine, anzi genera una lentezza e pesantezza non imputabile alla particolarità dell’autore rappresentato. La sonorità dell’ambiente congiunto ad una recitazione resa sciatta non sortiscono la finalità che ci si era proposta, se non in singole scene come nel caso del soliloquio disperato di Vanja sulla passione per Elena, o addirittura nei piccoli gesti, ancora Vanja che nel congedo definitivo di Astrov batte infantilmente i piedi a mezz’aria lasciando trapelare la condizione nervosa postuma all’aggressione verso il professore In altre parole lo spettacolo presenta spunti importanti come l’organicità chimica e biologica della sofferenza che si articola nella presenza a tempo pieno dei personaggi sulla scena, in gesti individuali ed essenziali (sedersi sui tavoli, confinarsi ai lati dell’assito, esplosioni emozionali), ma che nel complesso sfuma nella mancanza di una tensione lirica e nella smorzatura troppo prosaica dei toni, sottraendo al testo originale la forza emotiva e profonda delle sofferenze narrate. Certo, è pur vero che il dolore di Vanja, di Sonja o di Elena diverge dalla condizione presente ne Il giardino dei ciliegi, esso ci appare, infatti, affogato in una terribile angoscia ed immobilità; ma tale asfissia viene determinata da parametri divergenti da quelli che sembra rimandare la regia di Sepe. Pensiamo al discorso sulla città, alla relativa lontananza con la campagna in cui Vanja e gli altri sono immersi, pensiamo al “troppo lavoro” che sta uccidendo l’anima di Astrov il quale, pur vicino alle sue amate foreste, ha perso ogni entusiasmo per vivere. La gabbia in cui sono imprigionati si rivela essere troppo estesa, e le esistenze non smettono di consumarsi nella perenne sensazione del troppo vasto e del troppo lontano. Da contrasto le misere vite si perdono nella consapevolezza che il passato, altro parametro d’infinità, pesa enormemente con la sua inconsistenza. Il nulla, appunto, quale pena più atroce! Appare chiaro che la collocazione spazio-temporale nasce da una simile riflessione “Anche la scenografia di quest’opera richiama al nulla, un nulla esistenziale che pervade gli attori, i quali, anche in una scena vuota che li pone al centro, rimangono protagonisti indiscussi della propria incapacità di cambiamento.” (dal libretto di sala), ma la costante impressione è che abbia poco di cechoviano, piuttosto suggerisce un andamento alle volte beckettiano. Il peso del nulla è inchiodato a quelle ferree mura ed a una sonorità artificiosa che non ci permette di entrare “nel lavorio del sangue e dei nervi” degli interpreti/personaggi. Sarà che la smorzatura dei toni che punta alla nudità emotiva dell’attore non combaci con i nostri immaginari cechoviani, e paradossalmente non ne siamo coinvolti, ragion per la quale tutto ad un tratto ci par maggiormente finto, dato che l’opera, per come la conosciamo, ha già insiti l’essenzialità dei sentimenti e della realtà.