Da John Poole e Antonio Petito a William Shakespeare
di Emanuele Valenti e Gianni Vastarella
Regia e spazio scenico di Emanuele Valemti
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Carmine Paternoster, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
Produzione PUNTA CORSARA / 369gradi
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Hamlet travestie da John Poole e Antonio Petito a William Shakespeare è tornato a Napoli dopo una lunga tournèe in tutta Italia. Ritorna forse con una consapevolezza matura del proprio lavoro, pluripremiato e candidato per il Premio Twister Hystrio 2015 come miglior spettacolo dell’anno.
Della contaminazione dei tre testi di base, Amleto Barilotto (e Barilotto è a sua volta il cognome del farsesco Don Fausto di Petito) ne è il frutto brillante ed originale che consente a Punta Corsara di trasformare una serie di guizzi, mimiche e gestualità allusivi anche al nostro teatro amatoriale in un apparato vivace e comico ben strutturato, all’interno di una drammaturgia congeniale per accogliere il genere della farsa in maniera intelligente e basata sulla genuina capacità del ludere e il-ludere.
Già, perché come il Don Fausto di Afragola, il personaggio petitiano non fa che barricarsi nelle sue letture finendo per “mettersi in testa” di esser diventato il Faust di Goethe, così Amleto (Gianni Vastarella), dopo la morte del padre, mercante di Scampia, ritrova nel Principe di Danimarca un proprio alter-ego ed in tale estraniamento una sorta di guaina che lo allontana dallo squallido ambiente in cui vive. Il plaid che avvolge il suo corpo, il rinchiudersi entro gli scanni rossi che assumono funzioni multiple (chiara spia metateatrale), la vecchia canzone Where Do You Go To My Lovely di Peter Sarstedt che lo mura invisibilmente sono tutte forme di dissociazione dagli altri componenti della famiglia, e persino le parole che lo stesso Amleto scespiriano ritorce contro Ofelia istigandola al convento, sono le sole che gli consentono di sfogarsi nei confronti della sua fidanzata Ornella, un’odierna ragazza popolana in carne, con orecchini a cerchio e pantaloni attillati che ascolta canzoni neomelodiche e che è rimasta persino incinta!
Attraverso la rielaborazione simultanea di tre testi e seguendo, quindi, una comicissima traiettoria farsesca (possiamo, dunque, affermare che si tratta di una farsa della farsa), emerge di fondo un atteggiamento dissociativo non solo relativo alla famiglia ma anche all’ambiente socio-economico circostante: Amleto che si disinteressa della bancarella al mercato, unica eredità paterna, Amleto che principia il monologo “Song’io e nun song’io” al cospetto dei “pali” nella piazza di spaccio e quindi, considerato dagli stessi pazzo, sono tutti blandi riferimenti al disagio della periferia di Napoli, senza che la retorica del messaggio sociale a tutti i costi s’insinui all’interno della rappresentazione. Ma più di questo, Amleto Barilotto è un Amleto del “familismo amorale” del sud, e le sue parole rivolte ai familiari “così dissimili tra noi” sono quelle che più di tutte spingono lo zio Salvatore (Christian Giroso), la madre Amalia (Giuseppina Cervizzi), l’amico Ciro (Carmine Paternoster) ed di Ornella (Valeria Pollice) a chiedere aiuto a Liborio ‘o professore (Emanuele Valenti). Liborio è proprio il Don Liborio saltato fuori dalle pagine di Petito, e difatti affermerà di aver egli stesso fatto rinsavire un amico di famiglia facendogli credere di essere il diavolo di Faust. Questo trasferimento da una farsa ad un’altra diviene funzionale alla costruzione del nucleo centrale di Hamlet Travestie: per guarirlo tutti i famigliari sono costretti a rappresentare l’Amleto di Shakespeare sotto la guida del professore che farà la parte di Polonio,
Ma è proprio il giovane Barilotto ad iniziare inconsciamente la rappresentazione, invocando come il principe danese il padre defunto dicendo: “Che tengo io ‘e mancant all’Amleto origginale”, e dando adito ad un susseguirsi di rocambolesche e divertenti sketch che surrogano a grandi linee parte della tragedia secentesca. Del resto come appare a zio Salvatore/Claudio, ad Amalia/Gertrude, ad Ornella/Ofelia e a Ciro/Laerte l’opera originale se non un’assurda ed incomprensibile fila di parole messe insieme che stenteranno a memorizzare? Strano e irreale è per loro questo gioco del fare teatro in cui però s’instaura involontariamente un filo rosso con la realtà che essi vivono e costruiscono, come quando Salvatore vuol dichiarare Amleto pazzo per trarci i soldi della pensione e quindi privare il nipote della vita vera, rivivendo quindi il contrasto Amleto-Claudio.
Il ludere teatrale si avvale del testo di Shakespeare come canovaccio per commedianti da strapazzo, calati nel gioco della recitazione loro malgrado con tutti i misunderstanding che ne derivano e farciti di una comicità esilarante che pur nell’accompagnarsi alla gestualità e mimica del modo tutto partenopeo di far ridere, non trascende mai in un eccesso retorico e banale, anche grazie ad una sinergia d’azioni che stilizzano i singoli caratteri e che astraggono ulteriormente la vicenda dal contesto realistico di riferimento. Non a caso l’organizzazione dello spazio scenico è caratterizzato dall’uso esclusivo dei singoli scannetti rossi coadiuvato dalla sobrietà delle luci.
“’O 47 nun arriva a Danimarca” dirà alla fine Amleto Barilotto, cosciente di un insanabile conflitto della propria vicenda personale che ci conduce verso un clamoroso epilogo dal sapore amaro ma che rende meno incommensurabile farsa e realtà e si profila dunque, come una buona soluzione coerente con tutto quanto il lavoro.
Del teorema familiare contemporaneo e di contesto partenopeo, i singoli personaggi ereditano i relativi lati parossistici (gestualità, interazione, linguaggio e mimica) con i quali modellano le loro funzioni e valori emblematici. Inizialmente si dispongono su scanni rossi, due frontalmente, uno di lato ed un altro ancora di spalle alla platea. Si gioca quindi sull’antropologia famigliare del sud che paradossalmente diventa assimilabile alla vicenda di Amleto, e che costituisce il legame di fondo di tutta quanta la rappresentazione. Finzione e smascheramento della stessa agiscono infine simultaneamente riportando in palcoscenico un meccanismo moderno della farsa, della (finta) recita a soggetto, di vivace comicità verbale e non verbale, elementi eterni che si ergono come veicoli contingenti di un originario dramma famigliare di Scampia e di un conflitto interiore irrevocabile.