La seconda edizione della Rassegna Voce Donna si è conclusa con quest’opera di Marco Avarello, portata in scena in collaborazione con l’Università Roma Tre-Dipartimento di Scienze della Formazione e il patrocinio della Keats-Shelley House, museo dedicato ai poeti romantici a piazza di Spagna, dove John Keats abitò e morì nel 1821.
Introduce al racconto di Mary Shelley la musica dal vivo del Red4Quartet, due violini un violoncello e un contrabbasso con cui giovani ragazze eseguono con delicatezza le composizioni originali dell’altrettanto giovane e promettente Fabio Massimo Capogrosso.
Le luci si accendono sulla destra del palcoscenico illuminando la figura di Mary, diafana e leggiadra, che nel giorno del cinquantatreesimo compleanno, gennaio 1851, rievoca la sua tragica e audace vita, la giovinezza condivisa con Percy Shelley, la maternità e il lancinante dolore della perdita della figlia, l’affetto tenace per la sorella Claire, l’impegno della scrittura.
Pamela Villoresi, attrice capace di identificarsi con i suoi personaggi ad un elevato livello di empatia, è seduta allo scrittoio, avvolta in una sinuosa vestaglia, e con tono sommesso e soave dipana il filo della memoria, attingendo i ricordi dal copione-diario che sfoglia lentamente.
Percy è morto da quasi trent’anni, naufragato su una goletta di fronte alla spiaggia di Viareggio dove viene cremato e seppellito a Roma nel cimitero acattolico accanto a Keats, altro poeta romantico scomparso prematuramente. È curatrice delle opere del marito e conduce ormai una vita serena e agiata, ma è attanagliata dai mal di testa (forse un tumore) e dai ricordi che lenisce e stempera con bevande di laudano e assenzio.
Legatasi giovanissima a Shelley, rampollo di una aristocratica famiglia del Sussex e celebrato poeta della seconda generazione romantica inglese, già sposato e padre, parte con lui per un avventuroso viaggio portando con sé la sorella Claire.
Mentre Mary dà voce alle sue visioni, si aggira carponi sul palcoscenico un giovane uomo, si raggomitola, si insinua tra le vesti della donna, si appisola sulle sue pantofole. È l’essenza evanescente della Creatura, l’essere cui la fantasia immaginifica di Mary ha dato forma letteraria.
Era l’estate 1816 a Cologny, ricorda, “estate piovosa e poco clemente” che li costrinse a stare in casa leggendo storie gotiche di fantasmi e parlando degli esperimenti di Erasmus Darwin (nonno di Charles) che dichiarava di essere riuscito a rianimare la materia morta. Alla proposta di Lord Byron di cimentarsi a scrivere una storia di fantasmi, Mary rispose con il racconto “Frankenstein ovvero il moderno Prometeo”, opera che ritenne rappresentasse il suo passaggio all’età adulta.
Una serie di eventi tragici segnano quegli anni: il suicidio della sorella Fanny e quello di Harriet moglie di Shelley. Il trasferimento in Italia è caratterizzato da un lungo peregrinare: Venezia, Livorno, Lucca, Roma, Napoli, Firenze, Pisa, Lerici. Ancora lutti con la morte di due figli e della figlia di Claire e Byron. Vivere in Italia non la rende felice: descrive Napoli come una città puzzolente abitata da demoni e Lerici come una prigione.
Al romanzo che le darà la fama, scritto a meno di vent’anni, ne seguono altri sette oltre ad articoli, libri di memorie, diari e saggi ma la serenità continua a sfuggirle, sentendosi sopravvissuta a una stagione feconda e scellerata.
A farle compagnia solo i ricordi di Keats, Byron, Percy e dei figli e la presenza quasi tangibile della sua Creatura, sulla scena il fascinoso e niente affatto mostruoso Marius Bizau.
La regia di Linda di Pietro amalgama con mano leggera e sapiente musica, movimento scenico e recitazione.
Pamela Villoresi è brava oltre ogni aspettativa, facendoci rammaricare che si sia potuto godere di questa performance per un’unica serata.