di Dale Wasserman, dall’omonimo romanzo di Ken Kesey
Versione italiana: Giovanni Lombardo Radice
Adattamento: Maurizio de Giovanni
Regia: Alessandro Gassman
Scene: Gianluca Amodio
Costumi: Chiara Aversano
Disegno luci: Marco Palmieri
Musiche originali: Pivio & Aldo De Scalzi
Videografie: Marco Schiavoni
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Personaggi e interpreti:
Dario Darise: Daniele Russo
Suor Lucia: Elisabetta Valgoi
Muzio Di Marco: Mauro Marino
Giacomo Buganè: Marco Cavicchioli
Adriano Bernardi: Giacomo Rosselli
Manfredi Delle Donne: Alfredo Angelici
Dr. Graziano Festa: Giulio Federico Janni
Fulvio Calabrese: Daniele Marino
Assistente Lorusso: Antimo Casertano
Ramon Machado: Gilberto Gliozzi
Assistente Esposito: Gabriele Granito
Infermiera Spina; Titti Love: Giulia Merelli
Produzione: Fondazione Teatro di Napoli
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Dopo Una pura formalità di Glauco Mauri, il Teatro Goldoni di Venezia chiude la stagione con Qualcuno volò sul nido del cuculo. Reso celebre dal film di Miloš Forman nel 1975, il romanzo One Flew Over the Cuckoo’s Nest di Ken Kesey fu ridotto per le scene americane da Dale Wasserman un anno dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1962. L’adattamento del testo di Wasserman, approntato per quest’occasione da Maurizio de Giovanni, sposta l’azione e i personaggi a Napoli. Perché? Per campanilismi produttivi? Per far ruotare tutto al meglio attorno allo scugnizzo Dario Darise, l’originale McMurphy, assecondando il cliché del meridionale caciarone? Incognite della drammaturgia contemporanea.
A leggere le note di regia, colme di intenti encomiabili, sembrano aspettarci toccanti momenti drammatici, che in verità latitano nel risultato complessivo. Il teatro non si fa con la cinepresa ed è inutile perseverare nello sfruttamento del palcoscenico come schermo bianco. Non deve essere di questo avviso Alessandro Gassman, dato che ancora, dopo La parola ai giurati, Riccardo III e 7 minuti, insiste nel riproporre le medesime soluzioni cinematografiche. Le scene di Gianluca Amodio reimpiegano il solito velario e scopiazzano Briarcliff, il manicomio in cui è ambientata Asylum, la seconda stagione di American Horror Story. Il forzato iperrealismo viene ricreato dai costumi, qui di Chiara Aversano, e dalle luci di Marco Palmieri. I microfoni, se da un lato aiutano il regista a soddisfare la voglia di verosimiglianza, dall’altro appiattiscono la voce degli attori, togliendo ad essa la capacità di costruire lo spazio e inficiando la comprensione delle battute, qualora il volume e la dizione del recitato non siano adeguati. Le consuete videoproiezioni di Marco Schiavoni delineano gli a parte e l’accelerazione degli eventi. Si fatica a ricordarsi se le musiche di Pivio & Aldo De Scalzi siano differenti da quelle dei precedenti allestimenti. Visti quattro titoli tecnicamente identici, si può concludere che confidare in una svolta nell’arte registica di Alessandro Gassman è come aspettarsi dalla nonna le caramelle alla menta, quando sai bene che lei compra solo quelle al rabarbaro.
Poco entusiasmante il cast. Elisabetta Valgoi, la perfida Suor Lucia – copia non casuale di Sister Jude, diabolica direttrice del manicomio di Asylum – tenta di risollevare le sorti di una compagnia disomogenea, confermandosi attrice di alto livello, fuori posto perciò in una produzione commerciale come questa. Godibili Mauro Marino, Marco Cavicchioli e Daniele Marino. Daniele Russo, il protagonista, recita a mitragliatrice spianata, inanellando ogni battuta in una nenia gigionesca, a tratti irritante, che priva il personaggio di sfaccettature e d’intensità. Gilberto Gliozzi incespica nelle parole, oltre a mantenere un volume d’emissione basso, e si capisce poco di quello che esprime. Giulia Merelli, nel doppio ruolo di Spina e Titty Love, riesce meglio nel primo, risultando inesperta nel mantenere costante la flessione ciociara del secondo. Antimo Casertano è un guaglione più bello che bravo. Marginali e ordinari Giacomo Rosselli, Alfredo Angelici, Giulio Federico Janni e Gabriele Granito.
Teatro affollato e ampio successo di pubblico.