di Sarah Kane
regia Pierpaolo Sepe
con Dacia D’Acunto, Gabriele Colferai, Gabriele Guerra, Morena Rastelli
scene Francesco Ghisu
luci Cesare Accetta.
Produzione Associazione Casa del Contemporaneo
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Approcciare alla drammaturgia di Sarah Kane non è mai semplice ed è una questione che non riguarda solo il regista e l’attore, ma anche e soprattutto il pubblico. Come se fossimo dinanzi ad una polifonia di voci quale unico indizio di esistenze sociali disintegrate che rinvengono nel teatro l’unica possibilità di darsi una struttura tangibile. Sebbene contro ogni convenzione naturalistica, la Kane resta una “purista” nel continuo tentativo di “unire la forma al contenuto” (Graham Saunders citato nel comunicato stampa), e guardando alla scena come una catarsi in cui sostanzialmente costruire un filo conduttore fra presenze psicotiche, paranoiche le cui parole non hanno un inizio né una fine, ma che insieme sono un continuum che procede nel superamento di ruoli distinti e definiti.
Questo è Crave il cui significato in italiano non può essere contenuto in una singola parola: bisogno, desiderio, fame di, sete di, ansia, bramosia, frenesia, smania (dalle “note alla traduzione” di Barbara Nativi– edizione Einaudi) e già tale polivalenza ci proietta nella difficile comprensione del testo.
Un linguaggio minuzioso, chirurgico e visionario veicola frasi e monologhi frammentari e morbosi: costruzioni intratestuali, sicché repliche quasi analogiche vengono date dagli altri interlocutori in un sovrapporsi di identità, condizioni, semplicemente voci.
Sulla scena, dunque, quattro personaggi; A (author, abusator, actor) ha una relazione malata e pedofila con C (child) che non fa altro che reiterare verbalmente il suo continuo bisogno di ricevere, nonostante stupri e violenze, amore da quell’uomo, B (boy) ama M (mother) che ormai giunta un’età matura vuol solamente esser ingravidata dal giovane amante senza alcuna implicazione emotiva. Mother è l’ironico appellativo dato a questa donna che non riuscirà nel suo intento, ma è anche la proiezione – almeno all’interno della complessa intelaiatura intratestuale – della madre di C, morta, colpevole di non aver protetto sua figlia dalle violenze subite, innestando una corrispondenza profonda fra le due figure femminili. Così anche A e B nella loro sintassi franta e inconclusa finiscono per sottintendere frammenti della psiche che li accomuna.
Ora, nell’allestimento di Pierpaolo Sepe i quattro personaggi sono compresi in un unico spazio squadrato e levigato che a ben vedere ci offre un assetto bifrontale nel senso che se verso il fondo sorgono quattro celle con le sbarre, quattro simmetrici compartimenti stagni, dal lato del pubblico, essi ne sono separati da un’angosciante rete di ferro, simile a quella che divideva l’ambiente dei manicomi dall’esterno. Essi urlano, sbattendo i loro arti contro, poi corrono forsennati dall’altro lato. C (Dacia D’Acunto) scrive sui muri – esattamente come un internato lascia messaggi deliranti sulle pareti dell’ospedale psichiatrico – mentre B (Gabriele Colferai) si esibisce in lascive movenze. Di nuovo accorsi al proscenio, echi pesanti ed amplificati ritrasmettono le loro urla. Lungo silenzio. Si accendono squallidi neon. Cominciano il loro dialogo. M (Morena Rastelli) ha occhiali da sole ed un foulard in testa, somiglia ad un’attrice anni ’50 mentre A (Gabriele Guerra) è elegante e distinto col suo cappello. Le frasi dell’uno completano quelle interrotte dell’altro, la voci si sommano nel tentativo precario di restituire identità definite ai quattro che invece non paiono altro che un solo flusso di coscienza di una mente labile e sconvolta quale quella della drammaturga inglese. Allora ecco che Sepe li confina in una sorta di terra di mezzo entro cui accogliere il disorganico caos di desideri inconsci, febbrili ed insani. “Non si è mai come forti come quando si sa di essere deboli” perché essi s’infrangono sul muro della vita e destinati a morire privi di una realizzazione. Siamo in una dimensione allucinata e morbosa, violenta e patologica che si concretizza nell’intuizione scenografica, una geometria che cerca di dare una razionalità al contenuto e di facilitarne la comprensione al pubblico. Un elemento interessante è che i corpi stessi hanno funzione preponderante; ad un certo punto una misteriosa forza li inchioda al suolo come se schiacciati da un peso invisibile. Le masse corporee si traducono in un’eco estenuante, pesante, dall’amplificazione metallica. A fatica si denudano spargendo le vesti sul pavimento, mischiandole sicché al rivestirsi ciascuno si mette i panni dell’altro ripristinando il caos delle loro disintegrate identità sociali. In un crescendo di esasperazione, le parole lasciano emergere potenti i loro moti emotivi (“Io la amo, mi manca” o ancora “Continuo a tornare”) in una reiterazione morbosa, mentre invisibili lancette scalfiscono con il loro suono frenetico gli ultimi istanti, acuendo un senso d’impotenza e di follia al contempo. La fine che è una non-fine è vissuta perlomeno nella regia di Sepe a rilento, nel buio, affidando al movimento corporeo la lenta deprivazione della misteriosa e inquietante vitalità.
Uno spettacolo di non facile ricezione, difficile da seguire per chi non conosce il testo ma che vista la durata relativamente breve si profila gestibile (a parte momenti di estrema lentezza). Interessante è l’allestimento di Sepe quale tappa finale di un lungo studio sulla drammaturga inglese morta suicida a soli 28 anni, che rende chiaro l’approccio di ricerca e sperimentale.
Ha un senso quindi vederlo rappresentato, entro il circuito del Napoli Teatro Festival 2015, nella Sala Assoli dei Quartieri.