Regia: Peter Greenaway
Sceneggiatura: Peter Greenaway
Cast: Sergei Eisenstein Elmer Bäck
Palomino Cañedo Luis Alberti
Concepción Cañedo Maia Zapata
Grisha Alexandrov Rasmus Slätis
Eduard Tisse Jacob Öhrman
Mary Craig Sinclair Lisa Owen
Hunter Kimbrough Stelio Savante
Origine: Paesi Bassi, Messico, Finlandia e Belgio
Anno: 2015
Durata: 105’
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Sergei Eisenstein (Riga in Lettonia, ai tempi facente parte dell’Impero russo 1898 – Mosca 1948) – regista, sceneggiatore, scrittore, scenografo, montatore e produttore cinematografico – mito della filmografia per i contemporanei (anche celebri) che lo conoscono, ammirano e difendono e per tante generazioni che hanno colto il lampo genialmente innovativo del regista russo che nei primi film utilizza la folla e non fa uso di attori professionisti e poi approfondisce tra l’altro il montaggio di cui diviene un pioniere elaborando la teoria del montaggio delle attrazioni, formulato per evitare l’assorbimento passivo delle storie da parte degli spettatori scuotendoli e stimolandoli dal torpore tramite un disordine sequenziale e una violenza visiva definita cine-pugno, argomenti che approfondirà e modificherà nel tempo costretto anche dall’inasprirsi dello stalinismo.
Tra gli estimatori dello straordinario regista russo Peter Greenaway (Newport 1942) – pittore, regista e sceneggiatore gallese di grande talento, uno dei più significativi e originali della cinematografia britannica anche per il carattere pittorico di certe sue inquadrature – che da giovane scopre Sciopero (1925), primo film di Eisenstein di cui diviene un appassionato cultore tanto da dedicargli la sua prima mostra di pittura (Eisenstein at the Winter Palace), da vederne tutti i film e visitare le località in cui ha vissuto oltreché studiarne gli scritti e leggerne le lettere inviate nel 1931 proprio dal Messico alla collaboratrice Pera Atasheva, sua moglie dal 1934, momento in cui l’Urss per legge proibisce l’omosessualità.
Proprio intorno a tale aspetto della vita personale – pare scoperto da Eisenstein durante la sua permanenza a Guanajuato (come recita il titolo originale Eisenstein in Guanajuato) in virtù della ‘dolce’ violenza esercitata dal suo accompagnatore ufficiale Palomino Cañedo, professore di religioni comparate… con tanto di moglie e figli – ruota la pellicola che secondo una tendenza della critica più recente tratteggia più gli aspetti psicologici del regista russo che le caratteristiche culturali, rischiando di creare una dicotomia tra la persona e l’artista quasi che procedano su strade parallele.
Il regista russo – che pare si sia sempre considerato un figlio rovinato dai genitori – appartiene a una famiglia ebreo-tedesca da parte di padre, architetto tirannico in continuo disaccordo con la moglie di origine slava, donna autonoma, autoritaria, amante dell’arte, della letteratura e… dei lunghi boccoli del figlio, una tra le cause delle violente discussioni tra i coniugi fino alla loro separazione. Particolarmente dotato per il disegno di cui riempie interi quaderni, è costretto a iscriversi a ingegneria anche se nel tempo libero coltiva la sua passione per il teatro finché la Rivoluzione d’Ottobre gli permette di diventare artista.
Dal film emerge un Eisenstein immaturo, insicuro, egoista, vanitoso, borioso, indolente, godereccio, lussurioso e sfrontato ancorché ironicamente consapevole dei suoi limiti e tutto teso durante i dieci giorni vissuti a Guanajuato alla scoperta dei lati più oscuri della sua psiche (tra cui l’attrazione per la morte in un ambiguo alternarsi tra eros e thanatos) piuttosto che a seguire il film Qué Viva México! che avrebbe dovuto celebrare la rivoluzione messicana, la più vicina a quella russa, rimasto incompiuto (numerosi i tentativi di montaggio da parte di altri autori dei chilometri di pellicola girati e mai arrivatigli in Urrs dove al suo ritorno per l’acuirsi della dittatura è tormentato da Stalin e soprattutto dai suoi burocrati che lo controllano ostacolandone l’attività) e girato soprattutto dal suo operatore, il grande Eduard Tisse.
Al di là degli stupefacenti effetti cinematografici messi in atto da Greenaway anche nelle scene sensuali più intime, sono fondamentali la capacità del finlandese Elmer Bäck nella parte del protagonista e del messicano Luis Alberti (la raffinata, sensuale e contraddittoria guida messicana) nel rendere due figure estremamente grandi e insieme assolutamente deboli, incoerenti, stravaganti, grottesche ed eccessive, entrambe profondamente convinte della loro superiorità così come la Russia rivoluzionaria.
Anche se Greenaway ha previsto di dedicare a Eisenstein entro il 2016 un’opera intitolata The Eisenstein Handshakes sui viaggi del regista russo in Europa e Nord America tra il 1930 e il 1932, resta comunque da chiedersi se lo spettatore comune riuscirà a riconoscere in Eisenstein in Messico una tessera del personaggio Eisenstein tratteggiato come un quadro cubista o se piuttosto non lo ridurrà solamente alle sequenze pur splendidamente iconografiche di questa pellicola figlia di un grande esteta e di una notevole cultura artistica: amore per un mito o desiderio inconscio di sgretolarlo?
Chi fra qualche lustro frantumerà nello stesso modo la figura di Greenaway anche se poi cercherà di ricomporla?