“La bottega del caffè” è una delle opere più riuscite di Goldoni. Un’opera nella quale l’autore non esibisce la consueta indulgenza nei confronti della società veneziana. Anzi la commedia fustiga i costumi di una comunità dominata dall’avidità di denaro, dall’ipocrisia, dalla maldicenza, dall’invidia, dallo spirito libertino. Vengono infatti rappresentati i nobili aridi e intriganti (Don Marzio), i mercanti bari e truffatori (Pandolfo), i giovani senza carattere, seduttori da tre soldi (Eugenio), gli avventurieri senza scrupoli (conte Leandro). In questo contesto le donne svolgono una funzione di contorno, funzionali allo sviluppo dialettico. Il personaggio di don Marzio merita una riflessione: il carattere negativo che risulta dal testo (campione della maldicenza e del pettegolezzo) è attenuato dalla funzione in qualche modo positivo, di amaro osservatore del costume e stizzoso acritico disvelatore di verità sgradevoli. L’unico personaggio veramente positivo è Ridolfo, il padrone della bottega del caffè, che (nella veste del deus ex machina) alla fine mette tutte le cose al loro posto, sistema la morale, sconfigge la maldicenza, rabbercia alla meglio i matrimoni in crisi.
Tutto si svolge in una piazzetta veneziana dove si affacciano la bottega del caffè, quella del barbiere e una bisca clandestina. Ed è in questo spazio angusto che si snoda l’azione che vede intrecciarsi, con grande sapienza teatrale, la vita e le miserie di una borghesia senza valori. Secondo i canoni della sua “Riforma”, Goldoni porta sulla scena uno scorcio della realtà senza infingimenti, senza svenevoli melodrammi. Prende spunto dagli accadimenti che la vita reale offre nella sua quotidianità per mettere in scena personaggi veri. Scrive Goldoni “I miei caratteri sono umani, sono verisimili, e forse veri, ma io li traggo dalla turba universale degli uomini”. E Silvio D’Amico nella Storia del Teatro drammatico chiosa “Goldoni non è il fotografo, ma il festoso pittore di un mondo superficiale, stanco, sensuale e tutt’altro che eroico e, nelle sue pitture ci dà né campioni di vizi atroci, né modelli di virtù sublimi, ma uomini e donne nella loro mediocrità”.
Merito del regista Naurizio Scaparro se tutti gli attori recitano senza sbavature e narcisismi impegnati come sono a ricercare i giusti ritmi intesi ad esaltare, di volta in volta, divertimento e riflessione. Pino Micol, nelle vesti di Don Marzio, gentiluomo napoletano, caratterizza bene il personaggio con voce e mimica sempre funzionali all’azione.
Ottimo il cast di attori: Ridolfo, caffettiere Vittorio Viviani; Eugenio, mercante Manuele Borgese; Flaminio, sotto il nome di Conte Leandro Ruben Rigillo; Placida, moglie di Flaminio in abito da pellegrina Carla Fornero; Vittoria, moglie di Eugenio Maria Angela Robustelli; Lisaura, ballerina Giulia Rupi; Pandolfo, biscazziere Ezio Budini; Trappola Alessandro Scaretti.
Belle le scene e i costumi a cura di Lorenzo Cutuli funzionali le luci di Maurizio Fabretti, belle le musiche del maestro Nicola Piovani con il violino di Lisa Green.
Applausi e numerose chiamate alla ribalta.