Tratta dall’omonimo film (del 1987) che non tutti hanno visto e che ha raggiunto una fama e un successo straordinari – si dice superiori alla qualità della pellicola – la trasposizione teatrale di Dirty Dancing ha debuttato lo scorso autunno e in concomitanza con Expo si presenta con una serie di novità tali da rendere lo spettacolo più suggestivo e caratterizzato da una straordinaria coralità che dà una forte sensazione di omogeneità.
Prescindendo dall’inopportunità di paragoni poiché ogni spettacolo ha una sua vita e una sua autonomia giudicabili di per sé, va messo in evidenza che è giocoforza operare variazioni passando dallo schermo al palcoscenico: in questo caso peraltro il film – ambientato nell’estate del 1963 – non è stato snaturato anche se il trascorrere del tempo ha reso più lontani quegli anni in cui i giovani stavano compiendo passi osé per svincolarsi dalla morale ottusa e reazionaria dell’epoca; in fondo si tratta in un certo senso dei prodromi di quel ’68 che ha giustamente contestato idee obsolete distruggendole, ma non ne ha proposte molte nuove.
Una pagina di storia attraverso il quotidiano di giovani di classi sociali diverse: alcuni più fortunati che si godono le vacanze e altri che devono già lavorare per vivere diversamente da oggi in cui, almeno da noi, tendono ad appoggiarsi alle famiglie e a ritardare ad libitum l’inserimento completo nell’età adulta… con un’inconfessata soddisfazione dei genitori che, pur protestando, sono ben lieti di avere i ‘bambini’ in casa.
In tale contesto si dipana anche la storia di un contrasto generazionale in cui l’apertura è solo apparente perché al di là delle differenze sociali e della diversa cultura dei due protagonisti (molto bravi Gabrio Gentilini e Sara Santonastasi nel rendere le rispettive caratterizzazioni ricche di sfumature e nel coinvolgere il pubblico nei loro sentimenti) il padre di Baby teme che la figlia cresca al di fuori del suo schema sociale e a maggior ragione con una libertà all’epoca desueta a diciassette anni. E dire che oggi gli adolescenti percentualmente vivono la propria sessualità ben prima… altro segno di un ulteriore mutamento nei costumi.
Uno spettacolo da vedere perché fa riflettere divertendo e ben venga la sua formula di “dialogo-ballo cantato” in un’Italia in cui si eccede con il musical come assemblaggio di canzoni con il risultato di rappresentazioni vuote di idee e di scarsa qualità.
L’inserimento nell’attuale versione di Dirty Dancing delle importanti e duttili scenografie di Roberto Comotti (professore emerito dell’Accademia delle Belle Arti di Brera) e delle nuove coreografie di Gillian Bruce consentono all’attuale regia di Federico Bellone di dare maggiore dinamicità e piacevolezza alla visione che evidenzia come dato primario una grande sintonia nel cast molto ben coeso certamente frutto di un indefesso lavoro e di un desiderio di migliorare proprio di chi non sentendosi perfetto ha l’intelligenza di tendere a un perfezionamento continuo.
Uno spettacolo di ottima godibilità, piacevole e divertente con un cast di grande qualità e con la possibilità di fruire della magia del ballo nelle più diverse forme grazie a un ottimo gruppo di ballerini, degni partner del duttile e misurato Gabrio: un modo intelligente per dimenticare i disagi di questa torrida estate.