Oratorio militare sacro in due parti RV 644
Libretto di Giacomo Cassetti
Musica di Antonio Vivaldi
Personaggi e interpreti:
Juditha: Manuela Custer
Abra: Giulia Semenzato
Holofernes: Teresa Iervolino
Vagaus: Paola Gardina
Ozias: Francesca Ascioti
Maestro concertatore e direttore: Alessandro De Marchi
Regia: Elena Barbalich
Scene: Massimo Checchetto
Costumi: Tommaso Lagattolla
Light designer: Fabio Barettin
Orchestra e Coro del Teatro la Fenice
Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice, nell’ambito del festival Lo spirito della musica di Venezia 2015
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Negli stessi giorni in cui a Ca’ Pesaro tornava visibile Giuditta II (Salome), capolavoro di Klimt pregno di sensualità ambigua e terrificante, al Teatro La Fenice andava in scena Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie, unico oratorio giuntoci dalla sconfinata produzione vivaldiana. Composto per propiziare la vittoria della Serenissima sul Turco durante l’assedio di Corfù ed eseguito alla Pietà tra il 1716 e il 1717, è un’allegoria del tempore belli, ove Giuditta, Abra e Holofernes simboleggiano rispettivamente Venezia, la Fede cristiana e il barbaro ottomano. Eppure, l’atmosfera guerresca contorna questa lunga riflessione intimistica tra la vedova e il generale, ed è nella vastità dell’organico strumentale previsto da Vivaldi, con i suoi svariati effetti timbrici, che si ritrova il linguaggio consono a descriverne i più diversi aspetti.
Portare in scena un oratorio può essere operazione facile o meno, come lo è giungere a risultati buoni o no, poiché esso è un genere affine all’opera, ma privo di quella fluidità che la caratterizza. Elena Barbalich ne cura la regia, fatta di gesti lenti e manierati. Plurime sono le idee su cui si fonda lo spettacolo, ma l’unica ragion d’essere – il conflitto tra religioni – viene volutamente tralasciato per non incorrere in questioni ideologiche che a Venezia, caso “moschea alla Misericordia” docet, sono sempre dietro l’angolo. L’attenzione perciò ricade su Giuditta e Oloferne, poli opposti della vicenda prestabili a banali interpretazioni dualistiche – lui e lei, bene e male, luce e oscurità, fede e infedeltà, morte e salvezza, guerra e pace… Le scene di Massimo Checchetto, omaggio a tanta arte del Cinquecento e del Seicento, esistono grazie ai fari beam, sfruttati in maniera drammaturgica dal light designer Fabio Barettin. L’orchestra è a vista e lo spazio scenico invade la platea tramite due passerelle laterali, espediente che rende ancor più profondo e rialzato il palco, come se l’azione avvenisse all’interno di un ambiente sacro velato da un mistico caigo (nebbia in veneziano). Tommaso Lagattolla impiega colori manieristi e caravaggeschi per i costumi ricchi di panneggi dove la luce può incunearsi creando suggestivi effetti di chiaroscuro.
Più ombre che splendori sul versante musicale. Le pericolose interpretazioni soggettive di Alessandro De Marchi stravolgono il senso dell’oratorio. Se in altre occasioni, come il concerto di David Hansen a Pordenone (https://www.teatrionline.com/2014/12/rivals-i-rivali-di-farinelli/), ha regalato momenti indimenticabili, qui osa troppo, complice forse un’orchestra non del tutto pratica con gli strumenti d’epoca e un cast disomogeneo. Alcuni esempi. De Marchi annacqua la marzialità del roboante coro iniziale, Arma, caedes, vindictae, furores, vero principio in medias res, trasformandolo nel terzo tempo di una sinfonia da lui aggiunta tramite l’arrangiamento di un concerto per violino. Al termine di ogni aria viene dato spazio a cadenze non pertinenti, soprattutto se si è in presenza di un organico inadatto a sostenerle. Le scelte agogiche non tengono conto della drammaturgia, tanto che Veni, veni, me sequere fide, esortazione repentina dell’eroina all’ancella Abra, si tramuta in una tediosa ramanzina.
Altalenanti le prestazioni del cast. Teresa Iervolino come Holofernes ha gusto nel restituire un latino ben declamato, pieno di colore e pastosità, grazie al bel timbro scuro e all’intonazione costante. Paola Gardina è un ottimo Vagaus, abile e duttile in qualsiasi registro. La segue Giulia Semenzato con la sua Abra puntuale e assai musicale. Completamente fuori parte invece Manuela Custer, Juditha impacciata che palesa criticità non indifferenti, quali disomogeneità tra i registri, debolezza d’emissione e frequenti cali d’intonazione. Pure negativa la prestazione di Francesca Ascioti, Ozias dalla voce intubata, secca e poco predisposta al virtuosismo.
Il coro, solo femminile, preparato come di consueto da Claudio Marino Moretti, si è trovato in difficoltà con la peculiare scrittura vivaldiana nei pochi momenti ad esso riservati.
Applausi convinti e qualche isolata, ma meritata, contestazione a Custer e De Marchi.