di Laura Curino e Gabriele Vacis
con Laura Curino
regia Gabriele Vacis
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Camillo Olivetti come Wagner. Un accostamento insolito e incomprensibile, ma che nelle parole di Laura Curino prende forma e diventa chiaro a chiunque. Due uomini che aspirano alla “totalità”, due avanguardisti, due geni condannati dall’amore per l’eccellenza. Forse è per questo destino comune, per questa passione, per questo coraggio che Camillo si lascia travolgere dalle sonorità wagneriane mentre i più sono ancora affascinati dalla musica di Puccini. Una scelta, questa, che va controcorrente, come la sua intera esistenza. Un’esistenza che prende corpo nello spettacolo della Curino, “Camillo Olivetti, alle radici di un sogno”.
Raccontare storie non è così semplice come sembra; significa saper entrare nella vita di qualcuno, cucirsela addosso e riuscire a portare in quella vita qualcun altro. Nel caso della Curino, un’intera sala di teatro. E lei, come al solito, vince questa sfida. Laura Curino, tra le più importanti voci del teatro di narrazione, sola sul palco, si affida esclusivamente alle sue eccezionali doti recitative per incantare il pubblico anche nella riproposizione di questo “lavoro”, come ama definirlo lei appena si mostra sul palco. Questa volta racconta la storia di Camillo Olivetti, un imprenditore coraggioso, energico, volitivo e anche un po’ folle. Ma, si sa, alle volte l’incoscienza e la follia, rette da una forte volontà e dal saper mettersi in gioco, permettono di fuoriuscire dalla mediocrità, di emergere dal piattume tanto caro a chi non sa vivere di aspirazioni. La storia di Camillo è fatta di sfide, di relazioni, di educazione e, soprattutto, di valori. Aspetti, questi, che emergono attraverso le parole dei personaggi e nelle più svariate situazioni che Laura Curino ripropone in scena. Dalle differenti modulazioni della sua voce nascono i protagonisti di una storia che sa di fatica, di pregiudizi, di incertezze e di voglia di novità.
Ma nel corpo della Curino prendono vita soprattutto le due protagoniste femminili della vita di Camillo: la madre, Elvira Sacerdoti, e la moglie, Luisa Revel. “Queste due donne, provenienti entrambe da una cultura di minoranza (ebrea la prima, valdese la seconda) sono state le protagoniste silenziose della formazione e della realizzazione del sogno olivettiano. Mi è sembrato giusto riportare la loro voce in primo piano, paradigma delle tante voci femminili che in quegli anni hanno costruito nell’ombra.”
Il titolo e la dichiarazione della “narr-attrice” si aggrappano ad una parola: sogno. E non potrebbe essere diversamente, perché sembra che si possa parlare solo di illusioni quando si insegue qualcosa che appare così lontano, quando si fa “il passo più lungo della gamba”, come amavano dire i concittadini di Camillo ad Ivrea. Quello di Olivetti è un sogno coltivato con amore e portato avanti con caparbietà e con una punta di stravaganza. Ma soprattutto, è un sogno che cresce perché si crede in qualcosa: quando Camillo si attornia di contadini piuttosto che di ingegneri e di intellettuali lo fa perché convinto di poter trarre del buono dalle persone, dai veri lavoratori. Era un uomo, lui, che amava l’innovazione, ne era attratto; non è diventato imprenditore per investire e guadagnare, ma per dare vita alle idee. Era un uomo che aveva bisogno di abbracciare in un solo sguardo il suo lavoro intellettivo e pratico allo stesso tempo. Era un uomo che voleva una tecnologia al servizio del benessere, che aveva messo in piedi una fabbrica dove chiunque aspirava a lavorare (non come alla Fiat, che incupiva gli animi e piegava i corpi!). Instancabile ragionatore, spingeva i suoi dipendenti a conoscere tutto, a chiedersi il perché delle cose, finendo per ottenere consigli da loro stessi. Ma soprattutto era un uomo che conosceva il valore della dignità e il rispetto della persona; esemplare a tal proposito il momento del passaggio dell’attività aziendale al figlio Adriano, quando gli dirà “fai tutto quello che vuoi, ma non licenziare nessuno perché la disoccupazione involontaria è quanto di peggio possa capitare ad un uomo”. Era il 1933 e Camillo comprendeva ciò che ancora oggi si fa fatica a capire.