drammaturgia e regia di Giancarlo Nicoletti
con Stefania Fratepietro, Giancarlo Nicoletti, Valentina Perrella, Luca Di Capua. Alberto Guarrasi, Davide Sapienza, Alessandro Giova, Cristina Todaro, Silvia Carta, Alessandro Solombrino, Diego Rifici.
assistente alla regia Valentina Migliore e Leonardo Virgone
grafica & video Paolo Lombardo
scene Giovanna Sottile
aiuto regia Sofia Grottoli
Produzione planetarts collettivo teatrale in collaborazione con Il Teatro coop./Galleria Toledo
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Il Teatro come specchio della realtà, assioma tra i più antichi del mondo, è ne “La festa della Repubblica” di Giancarlo Nicoletti fondamento principale della relativa drammaturgia.
Undici attori in scena per circa due ore di spettacolo; pur essendo una compagnia giovane selezionata per “Stazioni d’emergenza”, rassegna per nuove proposte organizzato da anni da Galleria Toledo, il Planet Arts Collettivo teatrale di Roma mette in scena un impianto che da un punto di vista formale riprende la drammaturgia tradizionale, e tenta di svuotarne i contenuti per poi rimpiazzarli con una sorta di “cortocircuito” che si traduce in una commistione di linguaggi, di coesistenza di indagine sociologica, trash d’autore, volontà di ricerca.
La trama appare lineare; una coppia di giornalisti (Giancarlo Nicoletti e Stefania Fratepietro) abbastanza celebre s’imbatte in un caso di cronaca nera; uno dei familiari della vittima, Vittorio (Luca Di Capua), filologo e anarchico li convince di aver rinvenuto presso un archivio la prova attestante l’esistenza di una cartella della Trattativa Stato-Mafia e di essere certo che un misterioso nipote del Presidente della Repubblica ne sia in possesso. Lo scoop del secolo, il Graal del giornalismo italiano per il quale ogni giornalista farebbe di tutto pur di averlo. Intorno al primario nucleo narrativo ruotano altri personaggi, stereotipi dell’Italietta trash e corrotta. Dalla pseudo-studentessa di giurisprudenza (Valentina Perrella) che mercificandosi e ricattando chiunque punta ad un talent-show della prima rete, alla diabolica vedova, cugina di Vittorio, che per assecondare le brame di fama dell’amante monta ad arte una storia di rapimento che ha come vittima suo marito e che parossisticamente racconta in streaming, sino ad arrivare a due sprovveduti ragazzi siciliani arrivati nella capitale per avviare losche attività mafiose e a un timido studente di letteratura, vittime di un ulteriore inganno tutto “letterario”, ad opera dell’anarchico filologo.
Senza dimenticare il personaggio dell’onorevole, emblema della classe politica nostrana, e di cui segretamente il protagonista ne è il ghost-writer.
Nel complesso lo spettacolo si regge su un assetto realistico e tradizionale; le quinte sono poste di sghembo così da far intravedere il fondale nudo, una scrivania, un divano e delle telecamere forniscono un’immagine verosimile di una redazione giornalistica. La prevalenza di luci naturali, i cambi di scena che avvengono nel corso della rappresentazione e i costumi dei singoli personaggi, atti a caratterizzare i rispettivi ruoli come avviene nel teatro di tradizione, restituiscono al pubblico l’impressione di assistere ad una rassicurante commedia tutt’altro che sperimentale. Invece, la struttura di fondo diviene il solo contenitore riempito da una serie di stilemi e stereotipi presi dagli starnazzanti talk-show televisivi per (ri)spettacolarizzarli sino all’eccesso. La volontà è quella di rimandare un affresco ancora più grottesco della mediocrità e del becero che regolano il sistema italiano corrotto sino al midollo. Nessuno ne è esente da questo modus vivendi et cogitandi, ciascuno diviene vittima e complice di una serie di falsificazioni che si elevano a paradigma della condizione di marciume in cui è immerso l’italiano medio. Montature mediatiche e “letterarie” si confondono, cosicché anche la cultura che si ritiene banalmente ancora di salvezza, stilema onnipresente del qualunquismo televisivo e della stampa, ne venga inquinata. Il triplice inganno sul quale si basa la drammaturgia assume una valenza puramente formale, barocca diremmo, atta a contenere simultaneamente forme linguistiche e dialettali assai inflazionate, schemi di sketch mutuati dal trash televisivo che prendono volutamente corpo attraverso un meccanismo teatrale stereotipato, creando paradossalmente una corrispondenza tra forma e contenuto.
Tuttavia il lavoro presenta alcune ridondanze che dovevano essere sfrondate, specie nella seconda parte, quando l’aggiunta di ulteriori elementi grotteschi ne appesantiscono lo svolgimento, rischiando di generare tanta confusione e di cadere nella eccessiva banalità. Sarà questo il “cortocircuito” cui si voleva arrivare?
Il pubblico sembra applaudire spesso e applaude ciò che trova esilarante, forse troppo gratuitamente per uno spettacolo che si presenta con una volontà di denuncia. Pur essendo ottima l’intuizione di servirsi degli stessi elementi, stereotipi e stilemi che sono oggetto di critica, essi andrebbero restituiti con una scrittura più incisiva ed essenziale che più cinicamente comunichi e che li riformuli senza cedere a facili ricalchi.
Quando le ultime parole del giovane filologo sembrano fare il verso al noto “Io so ma non ho le prove” di Pasolini, comprendiamo che Festa della Repubblica ci invita a tener conto della maniera in cui si tratti la banalità e la volgarità, e di come il pubblico necessiti di recepirle diversamente.