Una giovane donna si rifugia in una baracca per proteggersi dalle bombe che cadono e deflagrano tutt’attorno. In quell’inferno la donna (Adele) vede un uomo (Lucas) coricato per terra malato e ferito. L’inizio fra i due è ruvido, l’uomo sillaba parole scostanti. Adele si offende, reagisce ma istintivamente è attratta da quell’uomo autoritario e volgare. Con riluttanza decide di curarlo e assisterlo mentre fuori la guerra imperversa. Adele ogni giorno esce dalla baracca mentre il fronte della guerra è vicino e va in un casolare dove un contadino, apparentemente molto comprensivo, le fornisce il cibo per sopravvivere. Il dialogo fatto d’insulti, ricatti, promesse è il frutto di una lotta continua per dimostrare chi dei due ha più potere. La convivenza forzata trasforma la fragilità e la freddezza sentimentale del rapporto in un disperato abbozzo di amore, di calore umano, di sesso. Evidentemente gli opposti si attraggono, lei di famiglia borghese, lui proletaria, lei colta e sognatrice, lui (aspirante fotografo) volgare e terragno. La loro storia di amore forte, intenso e conflittuale, nata e sviluppatasi all’interno di un microcosmo impermeabile alle pulsioni del mondo, nato cioè senza fondamenti soliti, si sgretola quando Lucas ristabilitosi dalla malattia insiste per andare alla cascina a procacciarsi il cibo e scopre quale prezzo Adele era obbligare a pagare al contadino. La coppia esplode, Lucas furioso, deluso, disperato la insulta e corre alla fattoria dove il contadino messo di fronte alle accuse di avere approfittato di Adele e di essere un padre incestuoso uccide la giovane figlia e si toglie la vita. Passano gli anni, la guerra è finita e i due protagonisti si incontrano in un giardino. Lei ha per mano una carrozzina con una bimba, lui dice di gestire una trattoria. Finale crepuscolare inutile nell’economia del racconto e nello sviluppo emozionale.
Nella sala del teatro gli spettatori guardano come in un ring la lotta di coppia. Il regista in modo molto intelligente spezza lo svolgimento scenico con una serie di siparietti (come le riprese sul ring) che scandiscono il passare del tempo. I dialoghi sono serrati esplosivi caratterizzati dall’effetto claustrofobico, dalla vicinanza coatta. La commedia è all’insegna della violenza verbale volutamente eccessiva anche nelle passioni amorose. Uno spettacolo dove l’intensità drammaturgica viene stemperata da un velo di ironia e dall’abbozzo di un sorriso. Le forme espressive sono scarne ed essenziali a testimonianza di un sentimento dell’esistenza fondamentalmente negativo e disperato in cui la vita dell’uomo pare esaurirsi in un girare a vuoto di parole e di gesti.
La caratura drammaturgica di quest’opera è accompagnata da una classica semplicità di azioni, la vicenda è raccontata con una scrittura veloce, un ritmo teatrale equilibrato grazie alla regia dello stesso autore Gianpiero Rappa e ad una profonda analisi psicologica dei personaggi. Funzionali le scene e i costumi di Barbara Bessi così come le musiche di Massimo Cordovani.
Veniamo infine ai bravissimi straordinari attori Filippo Dini e Arianna Scommegna che sono i veri mattatori della serata. I calorosi applausi li meritano tutti.