Inizia e finisce mangiando il monologo che Anna Cappelli rivolge agli spettatori. In mezzo alcuni anni della sua vita trafitti da una indicibile solitudine esistenziale.
Si presenta sulla scena in sottoveste e scalza, in questo allestimento di Rinaldo Felli che debutta in prima nazionale: essere priva di vestiti e ornamenti è metafora della sua esistenza spoglia di affetti, di gioie, di gratificazioni. Quasi un peso per la famiglia d’origine che dà la sua camera alla sorella Giuliana appena lei lascia la città, Orvieto, per trasferirsi a Latina come impiegata al comune.
La scena di Alberto Panciocco è scarna, occupata solo da quattro sagome di pomposi vestiti tutti uguali ma di diverso colore, che la povera ragazza non potrà indossare e da uno specchio finto in cui non si può riflettere, come a significare che niente nella vita di Anna è reale, tutto è immagine sbiadita, simulacro.
La giovane vive in una stanza ammorbata dagli odori di pancetta fritta e pesce lesso nella casa della signora Tavarini infestata dai gatti. È disadattata ma sembra innocua, non lega con i colleghi che ritiene pettegoli e supponenti, non si sente amata dalla famiglia, non va d’accordo con la padrona di casa: livore e risentimento la pervadono. Quando incontra il ragionier Tonino Scarpa gli fa gli occhi dolci, lo stuzzica: è l’unico essere umano che non la esclude. Anzi, la invita a uscire, la lusinga. È un’occasione da non perdere, possiede una casa di dodici stanze, così, nella mente di Anna smaniosa di possedere qualcosa, assume le sembianze del principe azzurro. Però non la sposa, no, è una convenzione borghese cui una donna emancipata deve rinunciare. Anna accetta: avere una casa e un uomo è un successo! La cameriera è invadente, Tonino non è brillante, ma può bastare.
Arriva il coup de théâtre: Tonino le comunica l’intenzione di trasferirsi in Sicilia, da solo.
Può la mente di una donna accettare di perdere quello che ha acquisito, ciò che è riuscita a possedere dopo tanta solitudine affettiva? No, non può. E infatti Anna non rinuncia a ciò che è, ossessivamente, suo. Non rinuncia a ogni centimetro di pelle di Tonino, alle ossa, al cuore, al cervello. Tutto rimane a lei, anzi tutto rivivrà “in” lei che “con” lui potrà viaggiare per il mondo, dopo aver bruciato la casa con l’ultima candela ricavata dalle sue ossa.
Delirio o realtà, lucidità omicida o follia, vittima o carnefice dalla doppia personalità?
Annibale Ruccello è stato un drammaturgo di talento scomparso troppo precocemente, nel 1986 a soli 30 anni. Questo suo monologo per attrice dagli imprevedibili risvolti ha catalizzato molte attrici che si sono misurate con la disperazione di Anna, portatrice dei valori culturali degli anni ’80 in cui si andava affermando il primato dell’avere e dell’apparire sull’essere. Nella sua breve esistenza, Ruccello ha puntato il suo occhio di scrittore su Napoli e sulla condizione degradata dalla superstizione, dall’ignoranza e dalla violenza di una umanità che non trova riscatto e rivela il proprio lato oscuro.
I personaggi evocati nel racconto (genitori, sorelle, padrona di casa, amante) sembrano veramente presenti nei dialoghi che la protagonista instaura con loro.
Claudia Pellegrini non corrisponde anagraficamente alla giovane Anna e non si lascia andare ai furori bellicosi della sua inespugnabile follia, preferendo piuttosto “raccontare” la vicenda umana di questa figura femminile, alla quale un maggior vigore interpretativo avrebbe conferito più pathos.