Il pubblico entra in sala a sipario aperto, con la scritta luminosa “Cabaret” che campeggia sul palcoscenico sovrastando un telo bianco sospeso che divide in due parti lo spazio. Ci accomodiamo nel trasgressivo e decadente Kit Kat Club, teatro di rivista dove annegano le inquietudini della Berlino del 1931, accolti da un Maestro di Cerimonie truccato da clown, morboso e malvagio.
Si solleva il telo mentre le ballerine sgambettano e cantano, e l’insegna luminosa si stacca rimanendo penzoloni, metafora del vacillamento della società tedesca sotto i colpi dell’ideologia nazista che condurrà alla catastrofe.
La vicenda è nota, soprattutto dopo il successo del film di Bob Fosse del 1972 premiato da una pioggia di Oscar, che ha rivelato il talento di Liza Minnelli nei panni della protagonista Sally. Il giovane scrittore americano Cliff Bradshow cerca a Berlino ispirazione per un romanzo, e trova alloggio in casa di Fräulein Schneider. Una sera, al Kit Kat Club conosce l’inglese Sally Bowles, amante del proprietario; piantata e licenziata dopo qualche giorno, la ragazza si rifugia nella camera di Cliff.
Mentre su Berlino si addensano le cupe nuvole del nazismo, i due giovani si innamorano e Fräulein Schneider riceve la proposta di matrimonio dal suo inquilino Herr Schultz, attempato e benestante commerciante di verdure, ebreo. Al Kit Kat si balla, si canta e ci si esibisce in sketch licenziosi, ma il cielo sopra Berlino si fa sempre più minaccioso: la follia hitleriana si scaglia contro gli ebrei. La padrona di casa scioglie il fidanzamento ormai pericoloso, preludio di altri e ben più gravi dissolvimenti familiari che vedranno interi nuclei di persone legate da vincoli e affetti, smembrati e inviati nei campi di sterminio, tra l’indifferenza di molti.
Saverio Marconi, con la Compagnia della Rancia, realizza questo musical che approda a Roma dopo un trionfale debutto al Todi Festival. Formidabile e irriconoscibile col viso truccato di bianco e le movenze ambigue, Giampiero Ingrassia nel ruolo del Maestro di Cerimonie, licenzioso e stravagante, onnipresente tra le burrose ballerine, morbide e carnose secondo l’ideale femminile dell’epoca.
Sally Bowles canta con la voce strepitosa e potente di Giulia Ottonello, che tanta strada ha percorso dalla vittoria ad Amici nel 2002, brava anche nel recitato. Mauro Simone esprime in pieno le titubanze e la ritrosia di Cliff, Altea Russo è la rassegnata Fräulein Schneider, Michele Renzullo è il disarmante Herr Schultz, Valentina Gullace la procace ed estemporanea vicina di casa, Alessandro Di Giulio è Ernst Ludwig.
Evocativa la colonna sonora con brani memorabili, come Life Is a Cabaret e Mein Herr, Money Money, Maybe This Time.
Il grande telo bianco della scenografia ideata da Gabriele Moreschi e Saverio Marconi, alzandosi e abbassandosi demarca lo spazio del varietà da quello della vita nella camera di Cliff.
Dirompente nel finale la soluzione registica della grande scatola che si forma con le tavole del palcoscenico che si alzano sui quattro latiri attirando dentro tutti i protagonisti che indossano divise a strisce con la stella di David sul petto. Da una piccola grata tante mani si agitano disperatamente. La grande follia ha raggiunto il suo apice: Life Is a Cabaret, ma non per tutti.
Un affresco epico, ben delineato attraverso le atmosfere evocate anche da luci e costumi.
Il testo di Joe Masteroff è tratto dalla commedia musicale I’am a Camera di John Van Druten, adattamento del romanzo Goodbye to Berlin del 1939 di Christopher Isherwood, con le musiche di John Kander su libretto di Fred Ebb. La produzione originale di Harold Prince debuttò a Broadway nel 1966 effettuando 1165 repliche. Numerose le edizioni in tutto il mondo, tra cui la versione di Sam Mendes, grande successo alle Folies Bergère di Parigi e allo Studio 54 di New York.