Drammaturgia di Antonio Latella e Linda Dalisi
Regia di Antonio Latella
con Valentina Acca (Gelsomina), Leandro Amato (Gennaro), Michele Andrei (Vincenzo), Alessandra Borgia (Assunta), Michelangelo Dalisi (Amalia), Francesca De Nicolais (Maria), Lino Musella (Alfonso), Candida Nieri (Olimpia), Paola Senatore (Zezè), Emilio Vacca (Assuntella/Giannino), Francesco Villano (Salvatore)
scene e costumi Simone Mannino e Simona D’Amico luci Simone De Angelis musiche Franco Visioli movimenti Francesco Manetti assistente alla regia Francesca Giolivo direttore di scena Marcello Iale assistente e realizzazione scene Marco Di Napoli assistente ai costumi Graziella Pepe fonica Diego Iacuz costruzione elementi scenografici Fabio Bondì, Francesco Santoro collaboratori alla costruzione Daniela Franzella, Cristina Esposito, Giuseppe Grippi
Produzione Teatro Stabile di Napoli in coproduzione con Fondazione Campania dei Festival Napoli Teatro Festival Italia e stabilemobile compagnia Antonio Latella
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La drammaturgia di Antonio Latella si caratterizza per la deflagrazione interna di un’opera allo scopo di destrutturare ciò che sostanzialmente sono i meccanismi del “dramma”, creando un approccio estraniante e al contempo visionario che restituisce un complesso di innesti e sottotesti dal quale prende forma lo spettacolo.
Non è facile descrivere “C’è del pianto in queste lacrime”, scritto a quattro mani con Linda Dalisi, ma è certo che è uno spettacolo che desta tante riflessioni.
Una questione formale. Sulla scena uno scheletro di un letto – senza materasso – è circondato da cinque microfoni di differente altezza. Unica fonte di luce, un faro centrale, che accoglie il singolare personaggio (un prezioso Emilio Vacca). Egli si siede su uno degli assi del letto; il suo aspetto è simile al noto Edward Mani di Forbici, e forse agli occhi dei più rammenta un ragazzo punk anni ‘80. Ecco che si schiude la parete di fondo dalla quale fuoriesce un corridoio luminoso e giallo a mezz’altezza rispetto all’assito. Una decina di personaggi vestiti in nero sono di spalle e coadiuvati dal battito di mani, recitano i versi di O sole mio.
L’assetto della scena, benché particolare, ha tuttavia un’essenzialità e pulizia quasi geometrica. Soltanto i personaggi, con la loro forma di insetti e vermi, (gli attori arrecano su di sé grandi corpi di questi animaletti), restituiscono un certo colore alla tetra struttura che si scontra duramente con le parole, i suoni, le situazioni; quello che si propone infatti è un internarsi progressivo entro una grande piaga, piaga che sa di fetore, di sterco, di liquidi biologici e sessuali. Un unico paniere, simbolo indiscusso dell’economia e della relazionalità del “vicolo”, e il cui contenuto è scambiato solamente da chi ne è parte, viene trasportato sul dorso di Donna Amalia (bravissimo Michelangelo Dalisi), vertice di una gerarchia familiare dalla quale i fratelli Giannino e Assuntina, incarnati dallo stesso attore, sono inesorabilmente schiacciati Il paniere diventa così ‘a vocca, ‘o pertuso, enorme utero e perciò strumento di controllo e comando di chi lo possiede. Quello cui assistiamo è lo scorrere attraverso due piani scomposti – il protagonista in assito proietta attraverso un continuo parto maieutico del ricordo – delle figure che vediamo agire lungo il corridoio a mezz’aria. Membri della sua famiglia compongono un personale presepe, simbolo indelebile di una religione totalizzante che annienta ogni altra possibilità d’essere.
Una questione genetica. Il buco, il buco del culo del mondo, in cui c’è merda e fetore, o anche fessa che sta a connotare l’organo femminile in napoletano, non sono sinonimi del famigerato ventre di Napoli. Ciò che emerge dalla sequenza dei ricordi familiari di Giannino/Assuntina è una scoperta mostruosa che via via prende forma all’interno dei rapporti di quella stessa famiglia. Tale famiglia non è soltanto quella di Giannino, ma ha qualcosa di emblematico, di fortemente simbolico; persino l’onomastica ammicca alla tradizione e allo stereotipo, e i personaggi diventano inquietanti cristallizzazioni di modelli esistenziali e sociali votati ad un comune assenso alla violenza e alla crudeltà. Essi sono il punto d’arrivo di un’indagine genetica, non di una sociologica che sottende al famoso ventre di Napoli della Serao; lo spettatore è costretto a guardare ad insetti giganti, quali mostruose visioni, e ad ascoltare distorsioni sonore delle loro voci, sino ad ansimanti urla come fossero semplicemente organi e buchi divoratori.
Una questione di “morfologia”. Al di là di ciò che coinvolge la vista, la composizione del testo ci pone dinanzi ad una percezione uditiva che diviene paradigma stesso della totale trasfigurazione “insettiforme” della realtà entro la quale si affonda; il suono è scandito da amplificazioni distorte, porzioni di dialoghi, micromovimenti ed azioni sono ripetute tanto da riprodurre tormentosamente il ricordo di Giannino/Assuntina, come se dall’inconscio emergesse quella parola, quel gesto sufficiente a far riaffiorare i mostri del proprio vissuto. Ma la parola di Latella e di Dalisi, la parola dialettale è anche così complessa da un punto di vista linguistico da fornire allo spettatore un continuum diastratico e diacronico, una varietà cioè di sfumature che vanno dal napoletano letterario a quello della canzone neomelodica, da quella antica a quella d’oggi. Una scala sulla quale ci si gioca, il linguaggio è convenzione per eccellenza, e la parola quella del Teatro e come tale diviene oggetto di violenza, di privazione di senso come di elevazione. La ripetizione di sintagmi, l’accoglimento di una sintassi barocca che riproduce una pluralità sinonimica che richiama quella di Basile, la moltiplicazione di uno stesso senso si, ma che costringe ad progressivo iter di degradazione verbale e morale, accolgono echi della nuova drammaturgia napoletana, citazioni eduardiane, canzonettische e cinematografiche. La lingua – e quindi la mente – partorisce continuamente forme mostruose, esattamente come da un ano si espelle sterco, o da organi sessuali i relativi liquidi.
Ci vengono in mente i femminielli della drammaturgia di una trentina d’anni fa, metafora di una condizione irrisolta, abitanti di oscuri ipogei. Latella sembra andare oltre: la parola, elemento base del Teatro come delle relazioni umane, viene completamente distorta, privata di senso, ripetuta così da svuotarla.
Eterni Amleti. A questo punto potremmo domandarci chi è in realtà Giannino che compie il rito della memoria e del voler essere altro, regista stesso di quel mosaico di persone-insetti? Giannino ha le mani di forbici, un costume regalatogli dal padre; Giannino è un ragazzo isolatosi nei ricordi di un 24 giugno, solo nella sua camera, costretto alla tortura della memoria che travalica persino la morte. Un novello Amleto reso autistico dall’incapacità di accettare e superare il marcio entro la sua famiglia che arriva sino alla crudeltà e alla violenza. Il familismo amorale, così definito da Banfield, che attanaglierebbe le società più arretrate tra cui il nostro sud, ed entro il quale a Dio e ai suoi comandamenti si sostituisce proprio quelli del nucleo vincolato dallo stesso sangue, si muove come a mo’ di un mostro nauseante che striscia sotto terra e schiaccia gli stessi insetti di cui si nutre.
“Sei un’invenzione, o se preferisci una sceneggiata”. Ci sono tutti i crismi per una sceneggiata; scene di gelosia, canzoni neomelodiche, inni calcistici, citazioni della tradizione napoletana, da “Addà passà a nuttat” a “Ricordati che devi morire”, caratteri costruiti sulla falsa riga eduardiana, su quella del guappo – immancabile in questo genere – e strofe della tradizione canora lasciati volutamente e necessariamente incancrenire nel tentativo di distruggerne il senso banale e riaffermandola contemporaneamente come prova di “fissità genetica”.
Chiagne e fott sono le sole coordinate di questo mondo melmoso, le basi azotate di un complesso DNA e che corrispondono alle reali azioni dei personaggi; solo la pleonastica espressione C’è del pianto in queste lacrime ci lascia un senso di pietà.
Già in scena nella stagione 2013/2014, indubbiamente lo spettacolo di Latella divide il pubblico tra chi è stimolato a comprendere e a confrontarsi con ciò che viene proposto e chi ne rivendica un rifiuto, ma è innegabile lo strenuo e profondo lavoro degli interpreti, l’alto livello tecnico e formale dell’intero allestimento., nonché del lavoro di composizione del testo e della regia.