di Federico Buffa, Emilio Russo, Paolo Frusca, Jvan Sica
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Appena entrato capisco che qualcosa mi sfugge, il teatro è stracolmo, pieno di giovani molto casual al cui cospetto io devo sembrare un pinguino (giacca nera, camicia bianca). Solo allora capisco che il fantomatico Buffa è un personaggio della televisione (Sky), commentatore telecronista sportivo. Questi ragazzi (in senso lato) sono venuti a vedere il reale Federico, non quello virtuale del mezzo televisivo che fa credere all’utente di partecipare, di essere realmente presente all’avvenimento trasmesso. Invece è come la Pipa dipinta da di Magritte con la frase “Ceci n’est pas une pipe”, cioè è l’immagine, un’illusione. Ma torniamo in teatro. La scena, curata da Cristiana Di Gianpietro, è bella nella sua semplicità un tavolo, un pianoforte, due sedie. Entra un cinquantenne, è lui, ovazioni. Mi bastano pochi minuti per capire che non ho sbagliato indirizzo. Difficile credere che Buffa non abbia mai calcato le scene, si muove con naturalezza, comincia a raccontare una storia con voce sicura (fortunatamente non impostata), i toni, le pause, i gesti sono funzionali al racconto penso siano stati determinanti i consigli della co-regista Caterina Spadaro). Alessandro Nidi al pianoforte e Nadio Marenco alla fisarmonica con la voce della brava Cecilia Gragnani (che interpreta con eleganza e fascino le canzoni dell’epoca) non si limitano ad accompagnare le varie fasi del racconto, le loro musiche (anche la voce è musica) sono i tasselli emozionali dello splendido mosaico. Con stile avvolgente Buffa, prendendo spunto dalle olimpiadi a Berlino del 1936 ci racconta la poliedrica realtà di quei giorni fatta di illusioni, delusioni, gioie e dolori, nella ristretta cornice dei giochi mentre nel resto del mondo un’umanità sofferente cerca di sopravvivere fra guerre, sopraffazioni, segregazionismo e razzismo.
Hitler quei Giochi ereditati dalla Repubblica di Weimar non li voleva, ma si lasciò convincere da Goebbels che ne intuì le potenzialità mediatiche che avrebbe consacrato la grandezza del terzo reich e la superiorità della razza ariana. Teoria che venne smascherata sul campo dalle vittorie di atleti neri, Jesse Owens con 4 medaglie d’oro nei 100, 200, salto in lungo e staffetta, Corneliuis Johnson e Dave Albritton nel salto in alto e dell’atleta coreano Sohn Kee-chung nella maratona al quale era stato imposto di correre per i colori del Giappone che in quegli anni aveva invaso e annesso la Corea. Il tutto documentato in diretta dalla regista di Lene Riefensthahl la cui libertà creativa ha consentito di consegnare all’umanità le eccezionali immagini di queste Olimpiadi. Federico Buffa che all’inizio interpreta la parte del comandante del villaggio olimpico (una sorta dei nostri steward) esce spesso dal personaggio per raccontare i vari spezzoni di questa storia e lo fa con l’intensità del grande affabulatore che per due intense ore sequestra l’attenzione del pubblico ricostruendo avvenimenti, volti e ambienti con la sola forza della sua parola e dei suoi gesti. I monologhi di Federico sono dunque un viaggio attraverso la memoria e la sua parola trasforma la storia in immagine, apre e richiude squarci nel tempo. E riesce anche a balenare una parvenza di sorriso. Alla fine dello spettacolo ci rendiamo conto che Federico Buffa, con la sua versatilità e grazie ai bravissimi Alessandro Nidi, Nadio Marenco e Cecilia Gragnani, ha sollecitato e provocato l’intelligenza, la creatività, la fantasia dello spettatore, stimolato l’empatia viscerale, e alla fine (per i più anziani) una sciagurata commozione.