È approdato al Teatro Arcobaleno, Centro Stabile del Classico, questo spettacolo emozionante e sorprendente, reduce da numerosi successi in tutta Italia.
Il timido, riservato Giacomo, con l’esile fisico cui lo ha condannato la grave patologia, balza davanti a noi, torna a essere compagno “della novella età” ma non intimorisce come ai tempi degli studi, assume invece un tono più confidenziale, parla di sé, di tutti i perniciosi effetti collaterali della tubercolosi ossea che non ha fatto sviluppare il suo corpo dotandolo di due gibbosità e di numerose affezioni ai vari organi. Parla della famiglia, del remissivo padre conte Monaldo, dedito agli studi e poco oculato, della volitiva e intransigente madre marchesa Adelaide Antici, racconta i giochi e i contrasti con i fratelli.
È un ritratto a tutto tondo e in chiaroscuro quello che emerge dalle pagine dell’Epistolario, dello Zibaldone, delle Operette morali, dei Canti, degli Scritti filosofici e politici, veicolato dalla voce di Giuseppe Pambieri, ora grave ora incalzante, passando senza soluzione di continuità dalla declamazione dei versi al racconto degli aneddoti che delineano le manie e le fobie di “Giacomino”, con la sola variazione di intonazione e di registro vocale, sottolineata dal gioco di luci dalle tonalità accese sul rosso, violetto, blu.
Una biografia romanzata da cui emergono il travaglio psicologico, le riflessioni filosofiche, il disagio esistenziale, l’ispirazione poetica, la malinconia depressiva, le piccinerie quotidiane come la fobia dell’acqua per il bagno, l’avversione per la minestra e la bramosia dei dolci accompagnati da miele di corbezzolo.
Dal superamento delle illusioni giovanili approda a una nuova visione della realtà, consapevole dell’ineluttabilità del dolore, in un pessimismo cosmico privo di speranza “O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi?”.
Un viaggio nella dimensione privata, intima e familiare in cui affiora la voglia di vita perché l’infermità non è una colpa, il piacere della gola soddisfatto parossisticamente con dolci, creme, pasticcini e poi il balzo sulle vette della poesia, passaggi sottolineati dalle musiche di Mozart, Bach, Beethoven, Chopin, Rachmaninov e Dvořák.
L’incalzare della malattia lo costringe ad allontanarsi dal borgo natio, quella Recanati dove era stato recluso fino all’età di 24 anni impegnato nello studio “matto e disperatissimo” prima di visitare Milano, Bologna, Firenze, Roma; si reca a Napoli, dove il clima concede un po’ di tregua ai suoi malanni e si ingozza di gelato e confetti nelle passeggiate per le vie del centro, sopraffatto dalla consapevolezza della fine imminente.
Delicato ed esaustivo, lo spettacolo intreccia il lessico familiare ai versi universali di Leopardi, nella stesura ideata, con sottile sensibilità, da Giuseppe Argirò, autore e regista, che afferma: “Leopardi è un re senza regno, è Amleto che arriva oltre il limite del conoscibile, supera la coscienza affermando la vita nel suo groviglio inestricabile di bene e male, per il genio tutto è noia, è tedio incommensurabile. Il poeta di Recanati, con lucido disincanto, affonda a piene mani nella verità e ne trae la radice del dolore. Giacomo è vulnerabile, ansioso, riservato, schivo, eppure è pervaso da un desiderio inesauribile di vita. Il dono della poesia appare come una maledizione divina che lo segna come diverso, lo condanna a una sofferenza eterna. Leopardi non è tutto nella sua poesia, la sua ricerca affettiva attraversa i secoli e incontra una disperata umanità”.
Di stringente attualità l’invettiva sulla naturale tendenza degli italiani a essere sudditi, incapaci di sentirsi uomini liberi componenti di una Nazione. Allora come adesso.