Questo lavoro di Mario Moretti, drammaturgo impegnato tutta la vita su temi di rilevanza sociale, portato in scena già nel 2003 dal regista Claudio Boccaccini con vigile attenzione alla contemporaneità, non ha perso nulla della sua vaticinante visione storico-politica. A significare che i percorsi umani verso un vivere civile ordinato e pacificato necessitano di numerose generazioni e talvolta imboccano traiettorie oscure e perigliose.
Tel Aviv: nel locale della centrale elettrica dell’Hotel Hilton, uno scarno giaciglio, un tavolo, un fornello, qualche sedia, alcune scaffalature. Un luogo tetro, illuminato dall’amore di Naomi e Abdel, ebrea lei, arabo-israeliano lui. Un amore giovane e istintivo che vorrebbe essere spensierato, ma il contesto non lo consente. Il conflitto tra israeliani e palestinesi incombe con un carico di sanguinosa ineluttabilità. I due ragazzi sono costretti a misurarsi con le rispettive origini anche nelle piccole schermaglie quotidiane.
Entrambi dipendenti dell’albergo, in quel bunker non riescono a sotterrare le loro differenze, che l’attualità costringe ad affrontare ogniqualvolta un attentato provoca decine di morti con la conseguente rappresaglia israeliana nei Territori.
Naomi, la bella e luminosa Euridice Axen, è propositiva, difende il suo sentimento e punta su ciò che li accomuna, in quanto tutti figli di Abramo. Esorcizza i timori ricordando il pensiero di David Grossman che l’umorismo è l’unica religione, vaccino contro fanatismo e fondamentalismo, e critica il governo che occupa e opprime, rafforzando il terrorismo dei kamikaze.
Abdel, il tenebroso e tormentato Marco Rossetti, si professa agnostico, ma lancia criptici messaggi di disagio fin dall’inizio dichiarando di aver messo in atto una tecnica di simulazione di identità per vivere in Israele, ma l’Intifada gli ha cambiato la vita. Quando la radio diffonde la notizia dell’attentato kamikaze in un centro commerciale, la scrittura di Moretti si fa lucida disamina mettendo a nudo l’anima islamica di Abdel, facendogli affermare che in queste scie di sangue annegano le contraddizioni del paese in cui la popolazione vuole lo Stato palestinese ma vota il Likud che è contrario. Il ragazzo confessa di aver voluto la cittadinanza israeliana per sentirsi dalla parte dei vincitori che avevano abbattuto le forze armate arabe, ma l’Islam ha l’odio lungo e gli estremisti sono inarrestabili poiché neanche gli arabi vogliono lo Stato palestinese che comporterebbe il riconoscimento dello Stato di Israele di cui, invece, vogliono la totale distruzione. L’umorismo nulla può contro alta finanza, petrolio, mercato delle armi. Inevitabile, a questo punto, l’adesione al richiamo di Allah che fa leva sul suo versante mistico e gli fa ritenere il sacrificio come il più nobile dei gesti umani per riscattare la viltà di essere diventato israeliano.
Mentre il timer scandisce gli ultimi secondi prima dell’esplosione e le musiche di Antonio Di Pofi amplificano il pathos, Naomi fa la sua scelta: l’amore ha i suoi rituali, che annullano le differenze culturali e religiose. Immolarsi con l’uomo amato, anche senza condividerne le opinioni, significa scrivere un nuovo capitolo, sono i corpi che scrivono le rivoluzioni.
L’accurata scrittura scenica esalta la naturalezza dei dialoghi sia nelle espressioni della vita reale sia nel radicalismo religioso, intransigente come ogni giorno ce lo propinano i mezzi di comunicazione. Il testo di Moretti, infatti, ha ottenuto nel 2003 il premio letterario nazionale Luigi Antonelli-Castilenti con la motivazione che “riflette sull’odierno periodo storico in modo originale e con una tensione teatrale di grande efficacia”.
Un plauso al regista Claudio Boccaccini che ha scelto di ripropone una nuova edizione a distanza di oltre dieci anni, spinto dalla “disperata volontà di continuare a contrapporci alla barbarie e alle ingiustizie con le uniche armi a nostra disposizione: il teatro e la poesia”.