Per rendersi conto che “Morte di un commesso viaggiatore” non è, come dicono molti, un’opera datata basta osservare la realtà italiana per convincersi che il testo di Miller è invece maledettamente attuale. In Italia sono oltre otto milioni le persone classificate nella casella della “povertà relativa”. Sono famiglie che arrivano a fine mese tra mille sacrifici, impossibilitati a far fronte a qualsiasi imprevisto. Ci sono inoltre circa 4 milioni di persone ai quali mancano i beni cosiddetti primari e vivono quindi in un’inaccettabile condizione di povertà.
Ma ritorniamo in teatro. La storia è ambientata negli anni quaranta in un’America vitalistica già contaminata dall’ossessione del denaro, dell’apparire, del successo. Il personaggio centrale è Willy Loman un anziano padre di due figli, sempre in giro nel nord est dell’America con le sue valige piene di merce da vendere. Piene, in realtà di sogni che non si avverano mai. Un uomo che non sa, non vuole vedere la realtà e riversa sul figlio Biff le attese frustrate di quel successo che la vita gli ha sempre negato. L’altro figlio Happy è un essere sbiadito senza personalità si accontenta di un lavoro modesto e dedica il tempo libero a sedurre le procaci ragazze del posto. È violento il rapporto di amore e odio fra padre e Biff, il figlio adorato e odiato. Un ragazzo che rifiuta, che rinuncia al sogno americano dal giorno in cui scopre il padre con una ragazza in un albergo di Boston. Un colpo da cui non si riprenderà. Cade la figura del padre e con lui i valori e gli ideali che per tanti anni ha rappresentato. Un colpo mortale che gli cambia la vita. Willy vede la sua vita un completo fallimento e la ripercorre tra ricordi e scelte sbagliate. Alla fine il vecchio, umiliato dal cinico datore di lavoro che lo licenzia e in preda al senso di colpa e alla disperazione, prende coscienza dell’inutilità della propria vita. Decide quindi di farla finita, camuffando il suicidio per permettere alla moglie, ma in realtà al figlio, di riscuotere l’assicurazione sulla vita.
Questa pièce è il trionfo della disperazione indotta da una società sottoposta alla sola legge del profitto. È l’epifania dell’incapacità dell’uomo di accettare la dura realtà della vita rifugiandosi in quella virtuale dei sogni impossibili. Una nevrosi onirica che impatta con una realtà drammatica fino alla fine inevitabile e liberatoria del suicidio.
Dal punto di vista formale il regista Elio De Capitani ha magistralmente sottolineato i numerosi flash back. Passato e presente si sovrappongono e si intersecano, anche quando rimescola passato e presente nei colloqui col fantomatico Ben il mitico fratello che ha fatto fortuna in Alaska. Salti temporali che creano nello spettatore un brevissimo sconcerto e un moltiplicarsi di emozioni.
Elio De Capitani nella veste di regista ha impresso un ritmo asciutto e denso di grande forza espressiva ben coadiuvato da una semplice e assolutamente funzionale scenografia di Carlo Sala. Di notevole impatto emozionale l’interpretazione sofferta di un Elio De Capitani in grande spolvero. Buona la prova di Cristina Crippa (anche se l’espressione vocale è monocorde) nella parte della moglie Linda che, con accenti di sincera disperazione, cerca di tenere unita la famiglia. Di ottimo livello Angelo Di Genio nella parte del figlio BIff che alterna scatti nevrotici ad una bontà di fondo. Eccellente Gabriele Calindri in quella del fantasmatico Ben. Bravi gli altri interpreti da Marco Bonadei (Herry), Federico Vanni, Matthieu Pastore, Vincenzo Zampa, Alice Redini, Marta Pizzagallo.
Una particolare menzione merita Michele Ceglia che, alternando luci intense e oscurità, crea atmosfere fortemente funzionali all’azione e alla psicologia dei personaggi così come le musiche e il suono curato da Giuseppe Marzoli.