Cara Valentina, qual è stato il tuo approccio con il mondo culturale e in particolare con quello della danza?
Mia madre ha un passato da pittrice e credo indirettamente mi abbia trasmesso un’attitudine alla “cosa artistica”. La danza è entrata nella mia vita in un modo buffo, dapprima a sei anni chiesi di iscrivermi a un corso semplicemente per seguire la mia amichetta dell’epoca, non volli nemmeno terminare l’anno e tra urli e strepiti chiesi a mia madre di non farmi più andare al corso di danza. Scelsi come attività extrascolastica, in un Istituto a Verona collegato alla scuola che frequentavo, un corso di pittura su ceramica che mi appassionò enormemente. Un giorno a causa dell’assenza per malattia della docente i tutor ci smistarono nelle altre classi per coprire l’ora di attività e mi capitò un’inaspettata lezione di danza. L’insegnante era una donna che diventò mia amica e confidente per molti anni, fu amore a prima vista. Ogni percorso, del resto, è costellato di esseri umani che ci aprono delle porte che altrimenti rischieremmo di non varcare mai.
Hai lavorato al Festival del Garda, come assistente alla produzione e poi come direttore di produzioni. Cosa ricordi di quel periodo?
La spensieratezza delle estati sul Lago di Garda. Erano gli anni in cui ancora vivevo a Verona e ogni estate ci trasferivamo con la mia famiglia sul lago, nella casa estiva dei miei genitori. Il Festival era agli inizi e come tutte le attività in start up viveva di rapporti umani fortissimi, di condivisioni e di esperienze folli. Facevamo di tutto tutti insieme per due mesi di tour senza sosta, ma era la gioia delle estati forse più belle che ho trascorso. Quando il lavoro con Spellbound iniziò a infittirsi non riuscivo più a reggere le contemporanee e presi la decisione di lasciare il Festival canoro per dedicarmi totalmente alla Compagnia.
Quali sono le maggiori difficoltà nel produrre uno spettacolo?
Ce ne sono di diverso tipo, quelle più facili da intuire sono sicuramente di tipo economico, ma credo che la maggiore difficoltà sia capire perché si sta approcciando una produzione. Il processo creativo è altro rispetto alla produzione per la messa in scena e produrre significa abbracciare un fattore di rischio per permettere all’idea artistica di esprimersi ed evolversi, per dare spazio al nuovo e per scommettere su progetti diversi… per non scivolare nella mera produzione per il botteghino senza alcuna scommessa o rischio culturale. Produrre richiede coraggio in questo senso, a mio avviso.
In seguito hai diretto e organizzato “Danza d’Estate” a Verona, un festival dedicato alla danza contemporanea. Quali stimoli hai tratto da quell’esperienza e in particolare quali serate conservi maggiormente nel cuore?
Danza d’Estate è per me una tappa fondamentale di vita, è da lì che è nato tutto nella sana follia degli inizi. Il Comune di Verona non accoglieva le mie maldestre proposte in Commissione Cultura e decisi molto semplicemente di produrre da sola un Festival da zero a 19 anni. Fu una follia ma una esperienza che in tre anni mi ha travolto come uno Tsunami accelerando sul campo la mia preparazione a quello che sarebbe stato poi un mestiere. Posso dire con orgoglio che l’allora glorioso Balletto di Toscana danzò nella città di Verona nella loro strepitosa carriera solo a quel Festival, in una magica serata di luglio sold out tra i miei pianti di commozione (sono famosa per le mie lacrime) mescolati ai rumori delle fontanelle del Giardino Giusti, sede dell’evento, l’anno prima della loro chiusura.
A un certo punto della tua carriera hai conosciuto, il nostro caro amico in comune, Mauro Astolfi, coreografo internazionale e da lì sei entrata a far parte della compagnia “Spellboud Contemporary Ballet” diventandone produttrice. Com’è avvenuto l’incontro con Mauro?
Ho incontrato Mauro come allieva a Verona a un suo Stage nella mia scuola di danza, uno stage a cui non dovevo andare ma che anche in questo caso è arrivato come uno scherzo del destino. Ero già incerta sulle mie doti ballettistiche ma ricordo che nella sua lezione presi consapevolezza della mia totale assenza di talento e fu lì che mi scattò in modo definitivo lo stimolo a voler spingere l’acceleratore per creare i presupposti al fine di far emergere il talento laddove c’era realmente. Iniziai a organizzare alcune sue masterclass nella zona e alcune performance nei locali e questa mia intraprendenza (o pazzia) lo spinse a propormi di lavorare insieme in modo complessivo, prendendomi carico della sua promozione e della compagnia come progetto da condividere a livello progettuale e produttivo… erano gli anni della prima Spellbound da cui tutto iniziò.
Come definiresti la Spellbound?
Casa mia.
Nel panorama nazionale e internazionale Spellbound ricopre un ruolo di primissimo piano. La qualità, a tuo avviso, viene sempre premiata?
La qualità viene premiata con tempi diversi in base anche alle circostanze fortunate che hanno il loro peso. Quello che spesso non si valuta è che non basta la qualità artistica ma serve una qualità complessiva che è sinonimo di professionalità e del saper fare, in una macchina dove tutti gli ingranaggi devono funzionare conta tantissimo il valore delle maestranze, di chi mette lo spettacolo in condizione di essere confezionato, diffuso, comunicato, allestito. Se c’è omogeneità tra i valori nelle parti, la macchina produttiva ha un futuro, più o meno lungo in base alle circostanze di luogo, economiche e anche di fortuna.
Qual è il punto di forza del maestro Astolfi e del suo lavoro coreografico?
Mauro è un grande formatore e ha la capacità di plasmare danzatori duttili grazie al suo tipo di lavoro. La sua coreografia è travolgente, la forza del suo linguaggio compositivo è sempre stata nella potenza del gesto, nelle dinamiche vorticose che appassionano il pubblico e anche il danzatore che cerca uno stimolo forte a livello di prestazione performativa.
Tra i tuoi principali progetti sotto il marchio EDA (European dance Alliance) si elencano workshop e approfondimenti sulla nuova coreografia contemporanea, concorsi coreografici realizzati in rete con piattaforme internazionali. Quanto è importante sviluppare nuovi linguaggi, progetti e partnership per far nascere idee, stimoli e nuove sperimentazioni?
Il futuro è nella rete, forse nulla di nuovo si può creare ma di certo si possono trovare modalità nuove di dare vita e forza all’esistente laddove merita. Il rapporto progettuale in collaborazione con altri partner e colleghi è stato la linfa principale del mio operato che mi ha permesso negli anni di lavorare con molteplici professionisti di grande rilievo aumentando sempre più un albero vitale di relazioni che dapprima professionali sono spesso piacevolmente scivolate sul piano dell’amicizia grazie alla stima reciproca.
Ami solo la danza contemporanea o segui anche le altre discipline?
Amo la bellezza in tutte le sue forme, credo sia un concetto che laddove esiste c’è e basta non si limita a un genere. Cerco sempre di andare a vedere tutti gli spettacoli che posso per conoscenza ma anche per stimolo personale e cerco di tenere gli occhi aperti su tutto ciò che possa lasciarmi un’immagine appunto di bellezza di qualsiasi tipo.
Tra tutti gli spettacoli che hai visto di danza in teatro, da spettatrice, quale ti ha più emozionato?
Diversi, e di diverso tipo. Ne cito quattro per tutti, il primo lavoro che vidi di Peeping Tom “Le Salon” che mi entrò come un fulmine dieci anni fa, “Memoires d’Oubliettes di Jiri Kylian che creò per il Giubileo di NDT, “Tabac Rouge” di James Thierree visto a Lyon lo scorso anno, “The Hole” l’ultima straordinaria creazione di Ohad Naharin per Batsheva che ho visto due volte a Tel Aviv lo scorso dicembre.
Chi sono i tuoi danzatori preferiti e coreografi del panorama italiano e internazionale attuale?
Non mi piace definire i miei preferiti perché è un modo per creare degli stereotipi e cristallizzare un gusto che invece evolve con il tempo e le esperienze, anzi deve esserci una evoluzione nella scoperta del nuovo.
E del passato?
Balanchine, Kylian, Pina Baush.
Hai collaborato con varie società ed eventi culturali legati alla Regione Lazio, tra cui “Tersicore Festival”, “Avvertenze Generali”, “Natale di Roma”, “Reate Festival”, “Danza e/è cultura” (un ponte tra Italia e Israele, in programma in collaborazione con Batsheva dance Company), hai creato “Contemporaneamente a Roma” (una piattaforma per nuovi coreografi e sei stata responsabile artistico della sezione danza al Parco Nazionale del Circeo). Tantissime esperienze diverse che ti hanno permesso di conoscere svariate realtà e soprattutto di apprendere al meglio il tuo lavoro e di importi come una tra le più valide operatrici in campo culturale per la danza, dico bene?
Non so se dici bene nel senso che non posso definirmi da sola in un modo o nell’altro, in un’era dove tutti sono troppo spesso impegnati ad autodefinirsi e autoproclamarsi ho sempre pensato più a fare che a dire.
Spesso sei stata chiamata come collaboratrice per progetti di danza, consulente e organizzatrice di Gala e a tal proposito dal 30 ottobre al 1° novembre di quest’anno porterai allo storico Teatro Carcano di Milano il Gala “Mara Galeazzi & Friends”. Vuoi illustrare per i nostri lettori questo importante evento milanese con la grande danza internazionale e con la splendida danzatrice della Royal Opera House Mara Galeazzi, un vanto tutto italiano che per la prima volta danzerà a Milano pur avendo studiato alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala?
Il Gala è un omaggio in primis a Mara e alla sua straordinaria persona, e poi è un modo per regalarci tre serate di grande danza. Il programma è stato voluto da me e Mara come misto e variegato con uno scopo preciso, e sono felice di poter regalare al pubblico un evento dove a un prezzo davvero basso potranno godere di capolavori senza tempo come “in the Middle di Forsythe” passando dai brani classici di Bournonville o Petipa per arrivare a nuove creazioni contemporanee, il tutto interpretato da una rosa di stelle. Sono contenta inoltre di poter ospitare in questo contesto una prima, poiché il coreografo australiano Tim Podesta sta realizzando in questi giorni al Royal Ballet un nuovo duet per Mara e Gary Avis. Il Teatro Carcano ha scelto di cambiare vestito da questa stagione e dare uno spazio preciso alla danza, nel collaborare alla programmazione era doveroso partire con un evento di alto respiro internazionale.
Sei l’agente per l’Italia di Shirley Esseboom, splendida danzatrice e già prima ballerina del Nederlands Dans Theater. Insieme noi tre abbiamo condiviso una Giuria di un Concorso Internazionale e ho scoperto in lei, oltre alla bellezza anche una meravigliosa artisticità ed espressività. Vuoi raccontarci qualcosa di lei per il grande pubblico e come è avvenuto questo vostro sodalizio di successo?
Shirley è prima di tutto una amica, una persona semplice, leale e amabile. Il rapporto di lavoro è stato la conseguenza di tanti anni insieme nella condivisione di diversi progetti per cui è vissuto con serenità, senza alcuna ansia da prestazione. Shirley è una persona schiva, molto umile, di grande ironia, una mamma e una donna con una vita anche fuori dal palcoscenico. Un personaggio atipico in un contesto dove spesso il presenzialismo prevale sulla sostanza.
A Roma ti occupi anche del “Daf Dance Arts Faculty”. Una realtà ben consolidata nel nostro paese che ogni anno sforna grandi talenti. Che aria si respira al suo interno dal tuo punto di vista e quali sono le maggiori peculiarità per la formazione dei giovani allievi?
Rispetto al DAF che è una macchina complessa e articolata, mi occupo solo dei rapporti internazionali e degli inviti ai coreografi e compagnie con cui creiamo dei raccordi sia per la formazione sia per lo sbocco futuro dei ragazzi migliori. L’aria è sana se le finestre sono aperte, se le idee circolano e l’approccio è plurale. Quello che vedo è una molteplicità di stimoli e opportunità a disposizione dei ragazzi all’interno di un programma formativo di respiro internazionale: non esiste un corso per insegnare loro a coglierli ma anche in questo solo i migliori, quelli con più motivazione e attenzione sapranno utilizzarli e trarne vantaggio. Per una buona formazione serve una grande attenzione alla persona, all’individuo nella sua crescita interiore, la danza come esecuzione di passi non basta, i ragazzi oggi sono impermeabili a molto di ciò che passa loro intorno come reazione alla saturazione di proposte, la vera scommessa è bucare il loro animo con stimoli che attivino i sensori culturali ed emotivi in generale.
Qual è il tratto principale del tuo carattere?
Non mollare, nel bene e nel male.
E il tuo peggior difetto?
Avere tanti difetti.
Cosa volevi fare da grande?
Volevo fare la stilista, poi ho maturato il dubbio di non volere effettivamente diventare grande.
Sei abituata in teatro al dietro le quinte ma non ti è mai venuta voglia di calcare il palcoscenico come ballerina? Non è mai stato nei tuoi sogni da bambina?
Da bambina vivevo la lezione di danza come il climax della settimana, ogni volta che mi facevo male a livello articolare o altro, dato che non ero fisicamente dotatissima, pensavo che sarei morta senza danza. Crescendo ho capito che la danza era in me non per la scena ma per la danza stessa, la mia prestazione era sempre secondaria rispetto al desiderio di vedere qualcosa di straordinario intorno a me e questo ha fatto immediatamente scivolare l’obiettivo verso ciò di cui mi occupo oggi.
A chi ti senti di esprimere un “grazie di cuore” per la tua carriera?
È una domanda difficile, il mio è stato un percorso lento, da autodidatta. Sicuramente ringrazio Mauro che venti anni fa mi ha dato in mano un seme condito di fiducia chiedendomi di andarlo a piantare da qualche parte, il resto della pianta è il frutto di un lavoro di tanti e il mio grazie oggi va a tutti coloro che mi sostengono a livello affettivo, personale, umano perché è un mestiere che ti pone di fronte continui ostacoli inaspettati e tante volte ti accorgi che li scavalchi perché chi ti sta vicino ti fa capire che non sei da solo e ti tende una mano. Non ho avuto molte persone che mi hanno insegnato il mestiere, ma ne ho avute tante che mi hanno teso appunto una mano, dato fiducia, aiuto, ascolto. Conta più questo dell’ingaggio del momento. In un ambiente dove la difficoltà nei mezzi economici è prevalente rispetto agli altri fattori, chiunque riesce a fare solo perché il contesto, la squadra, accetta di far parte del progetto, qualunque esso sia, e spesso le figure di front man sono in condizione di percorrere le strade che hanno intrapreso solo grazie a chi, dietro di loro, accetta il più delle volte dei compromessi importanti per permettere alla macchina complessiva di fare il suo percorso. Il mio grazie più sincero va a in questa direzione, in particolare a tutto il team dietro le quinte di Spellbound, da soli non si fa nulla.
Quali sono i tuoi ricordi più cari legati al mondo della danza?
Tutti, l’odore del palcoscenico, le risate con gli artisti, gli applausi nei diversi Paesi, gli abbracci dei danzatori. I ricordi sono legati sempre a momenti artistici, ciò che va cancellato è l’orrore della burocratizzazione dalla cosa artistica.
Qual è stato il tuo momento di maggior orgoglio?
Forse nell’ingenua emotività del momento quando al Festival Danza d’Estate del 1999 ci fu la standing ovation per la serata del Balletto di Toscana, per poco non infartavo dall’emozione… avevo fatto tutto da spazzare il palco a preparare il catering a casa nella notte. Sono ricordi che non si cancellano perché sembrano traguardi ineguagliabili in una età in cui guardi le cose con lo stupore di chi non sa. Accanto a questo, ogni nuovo Paese varcato con Spellbound, è per me una vittoria e un motivo di gioia incredibile.
Qual è la delusione più grande che hai mai avuto?
Aver capito che i ballerini non sono per sempre (scherzo). La vera delusione è stata intendere che viviamo in un Paese dove non esiste ricambio generazionale.
Quali sono le tue letture preferite?
Tutto ciò che esce dalla penna di Margaret Mazzantini.
Cosa rappresenta per te Roma, è la tua città preferita?
Roma è un luogo dove abito di passaggio ma che vivo poco come città.
Che musica ascolti?
Tutta quella che mi va.
Qual è il tuo rifugio da tutto e tutti?
Il mio nipotino.
Viaggi spesso per lavoro, cosa ti manca di più quando sei lontana da casa?
L’idea di avere una casa.
A chi non ti conoscesse cosa ti piacerebbe far vedere e conoscere di te?
Me e non l’idea che gli altri credono di avere di me.
Oltre al galà milanese “Mara Galeazzi & Friends” quali altri progetti hai in cantiere?
Molti, per fortuna! Sono in avvio diversi progetti formativi, corsi e workshop con tanti professionisti stupendi. A novembre prenderà il via un progetto in Europa con Spellbound e altre tre Compagnie che ci vedrà impegnati in Spagna, Inghilterra e Svezia, parallelamente sto lavorando a una stimolante coproduzione con il Giappone e la “Tomoko Foundation” sul tema della moda…
Il tuo motto?
“Indietreggio solo per prendere la rincorsa, mai per arrendermi…”.