Dramma per musica in tre atti KV 366
Libretto di Giambattista Varesco dalla tragédie en musique Idoménée di Antoine Danchet
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
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Personaggi e interpreti:
Idomeneo: Brenden Gunnell
Idamante: Monica Bacelli
Ilia: Ekaterina Sadovnikova
Elettra: Michaela Kaune
Arbace: Anicio Zorzi Giustiniani
Gran sacerdote di Nettuno: Krystian Adam
La voce: Michail Leibundgut
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Maestro concertatore e direttore: Jeffrey Tate
Regia: Alessandro Talevi
Scene: Justin Arienti
Costumi: Manuel Pedretti
Disegno luci: Giuseppe Calabrò
Movimenti coreografici: Nikos Lagousakos
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice col sostegno del Freundskreis des Teatro La Fenice
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Idomeneo è dramma familiare in salsa pagana, intriso di leggi divine e affetti intimi, di coralità e individualismo, di tormenti e rari momenti d’estasi. Inevitabile il confronto con l’Alceste gluckiana, da cui cinque scene del terzo atto ne derivano l’ispirazione, e con l’opera seria italiana, praticata dal giovane Mozart fin dall’Ascanio in Alba. Se già in Lucio Silla il sedicenne salisburghese aveva dato prova d’una fine analisi psicologica dei personaggi, qui ancor più musica e testo si fondono in un realismo psicologico ignoto all’opera metastasiana, ma che diventerà fondamento dei lavori successivi.
L’allestimento (nuovo, per giunta) proposto dal Teatro La Fenice per inaugurare la stagione 2015/2016 delude. Le idee di Alessandro Talevi sono confuse. Il classicismo annullato da tutta una serie di trovate che niente hanno a che esulano da Mozart. La reggia di Creta diventa un lupanare, dove uomini e donne dalle bionde treccine si dedicano a sodomia e fellatio, mentre la povera Ilia esterna l’amore sconsolato per Idamante. Gli stessi cortigiani poi volano al convito in onore di Nettuno, con tanto di aragoste (di plastica), spaghetti allo scoglio, pesce spada e insalata di piovra, un desco degno di Miseria e nobiltà! Sorvolo sulle fattezze del mostro marino. I personaggi non sono minimamente approfonditi e lo dimostra la spola continua da un lato all’altro, indice di uno studio registico superficiale. Assente qualsiasi climax emotivo, presenti staticità e noia a iosa. Non da meno le scenografie di Justin Arienti, costituite da una biblioteca marina vagamente massonica, con tanto di serva a pulire le teche, un mare ricreato da burloni dietro lo scheletro di una nave, panni insanguinati stesi ad asciugare. Fondali e fondalini neri di diversa consistenza, se non addirittura il sipario, calano senza alcuna logica drammaturgica, separando i protagonisti dalle scene nei momenti meno opportuni. Brutti senza riserve i costumi di Manuel Pedretti, in uno stile more shabby than chic. Il disegno luci di Giuseppe Calabrò adombra sovente i cantanti, lasciando trasparire una sciatteria luminotecnica imbarazzante.
Cast al di sotto delle aspettative per essere un’apertura di stagione, con qualche dovuta eccezione. Personalmente preferisco Idamante soprano e non mezzo, ma va riconosciuto a Monica Bacelli un raffinato gusto interpretativo, sia scenico che vocale, nonostante il particolare timbro brunito possa non piacere. All’Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani, ottimo Tamino il mese scorso, vengono riaperte le arie della versione monacense, Se il tuo duol e Se colà ne’fati è scritto, risolte in maniera superlativa con canto pulito, accenti azzeccati e sicurezza nelle agilità. Ekaterina Sadovnikova, Ilia tormentata e relegata in vesti zingaresche improponibili, sa dare un bel fraseggio al personaggio, ma null’altro, tanto che si trattiene assai, quasi a temere l’acuto, in Se il padre perdei, concentrato mirabile d’arte mozartiana. Brenden Gunnell, biondo Idomeneo bear più credibile come fratello che padre d’Idamante, possiede voce potente e indiscussa presenza scenica. Piacerà di certo a chi ama Kunde, dato che come lui latita di colori efficaci preferendo il canto nervosamente urlato. Qualche scivolo lo avvicina verso zone pericolose nei vocalizzi di Fuor del mar. Michaela Kaune non è all’altezza del personaggio affidatole, Elettra, peraltro mediocremente reso sulla scena. Pessima la dizione, mal eseguiti i virtuosismi, completamente fuori tono in Idol mio, se ritroso. L’acuto poco centrato e raggiunto con sufficienza dichiara l’inadeguatezza alla vocalità sillabica che pervade le sue tre arie. Bene il sacerdote di Nettuno Krystian Adam e Michail Leibundgut, la voce oracolare.
Eccellentemente preparato da Claudio Marino Moretti il Coro. Spiace vederlo svilito sotto i costumi da homeless e costretto alle movenze prive di qualsiasi gusto drammaturgico pensate da Nikos Lagousakos.
Onore a Jeffrey Tate alla guida di un’orchestra che si conferma di volta in volta sempre più specializzata in Mozart e nel contemporaneo. Il direttore dà il giusto spazio alle sezioni, adotta dinamiche sempre equilibrate, ammanta i momenti solistici d’interessanti scelte interpretative, creando un amalgama efficace con quei cantanti che sanno andare a tempo. Ne risulta un suono più omogeneo del solito, indice di un’intesa particolare tra Tate e orchestrali.
Applausi per tutti da parte di quel pubblico che è rimasto fino alla fine, dato che la platea durante gli intervalli si è svuotata sensibilmente. Questo è quello che La Fenice produce con gli incassi di Traviate, Butterflies, Barbieri, Elisiri e altri titoli di repertorio? Complimenti.
[A introdurre la recita del 22 novembre sono stati un minuto di silenzio per Valeria Solesin e gli inni nazionali a commemorare le vittime del terrorismo. Farlo in un contesto istituzionale come la prima è sacrosanto, ma riproporlo successivamente significa strumentalizzare il dolore. Eseguire Fratelli d’Italia e la Marseillaise solo con l’orchestra va bene, ma proiettarne i testi affinché la sala li canti, senza schierare il coro dietro il sipario a intonarlo, è stata una scelta di pessimo gusto. Non siamo al karaoke.]