È classico, ma non pedissequamente tradizionale Il giardino dei ciliegi di Luca De Fusco (coprodotto dal Teatro Stabile di Napoli, Teatro Stabile di Verona) che arriva al Teatro Quirino di Roma (in scena fino al 15 novembre) dopo il successo ottenuto al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo.
Le scene di Maurizio Balò, semplici e scarne, un armadio, una panchina e pochi altri oggetti, sono interamente giocate sul bianco: non abbagliante o luminoso, è un bianco quasi di gesso che riahiama i paesaggi mediterranei e diventa simbolo-sintomo di quella innocenza perduta dei personaggi, dei ma anche dell’inesorabile senso di decadenza della società. La decadenza d’altra parte viene immediatamente suggerita dalle scale rotte e malconce a riflettere la poco felice situazione economica della tenuta.
La chiave di lettura dello spettacolo consiste soprattutto nell’ideale punto d’incontro fra la civiltà russa e il nostro Sud che hanno entrambi storicamente saltato la modernità: il regista presenta un approccio mediterraneo al grande repertorio russo (non senza disdegnare un accento partenopeo agli attori) per raccontare tutta la decadenza di una classe egemone persa nelle propria inerzia.
La storia è ben nota: l’aristocratica e seducente Ljiuba (la sensuale Gaia Aprea che torna a lavorare con De Fusco) torna dalla Russia da Parigi ed è costretta a mettere all’asta la sua proprietà con il magnifico giardino dei ciliegi. Ad acquistarla sarà il ricco commerciante Lopachin (Claudio Di Palma) rozzo parvenu figlio di un vecchio servo della famiglia che abbatterà il giardino costruendo dei villini da affittare. Intorno a loro il fratello un po’ dandy di Ljiuba, Gaev (Paolo Serra), le due figlie di Ljiuba, Anja (Alessandra Pacifico Griffini), Varja (Federica Sandrini) e l’eterno studente Trofimov (Giacinto Palmarini) in una girandola di sentimenti e di ideali che forse resteranno tali
De Fusco racconta il declino di una società un po’ dandy incapace di reagire e di adeguarsi alla contemporaneità restando travolta dalla sua stessa inerzia e lasciando trasparire il senso inesorabile di decadenza attraverso la struggente bellezza dei valzer (accompagnati dalle coreografie di Noa Wertheim), congelando i personaggi in finti quadri statici, spezzando quasi la scena in due sul finale, amplificando le emozioni dei personaggi nel momento dell’addio al giardino attraverso le amatissime videoproiezioni. Fra i bellissimi i costumi di Maurizio Millenotti, il Giardino di De Fusco è da vedere e da apprezzare contraddistinto da un tocco un po’ metafisico e molto poetico che lascia trasparire il senso del naturalismo e del simbolismo di un testo immortale (qui tradotto da Gianni Garrera) pregno di malinconia ed enormi verità. In scena fino al 15 novembre.