Questo monologo per attrice solista scritto da Giuseppe Manfridi si ispira alla vicenda della nobildonna ungherese Eszrébet Bàthory rievocando i momenti conclusivi della sua turpe vita, quando gli armigeri inviati dall’Imperatore fanno irruzione nel castello per ispezionarlo e arrestarla, insieme a tutti i complici degli efferati delitti.
La donna, prima serial killer femminile della storia del crimine, ritiene infatti che il sangue di giovani vergini preservi il candore della sua pelle mantenendola giovane e incorruttibile. Per soddisfare l’urgenza del bagno settimanale, necessario a lei come agli altri il pane quotidiano, ha sacrificato oltre 600 fanciulle, adescate col miraggio di un pasto caldo e un lavoro. Se ciò si può definire malvagità, sostiene, è una malvagità benefattrice poiché le misere pulzelle, il cui plasma ha alimentato l’opalescenza madreperlacea della sua pelle, sono state sottratte a un destino indecente di perdizione, e obbedito a una legge di natura che preserva il meglio di sé.
Il piccolissimo ambiente de Le Stanze Segrete sembra quasi un confessionale dove la dama ammette i suoi crimini. Ma nulla ha della penitente schiacciata dal peso dei reiterati delitti. È indomita, fiera del privilegio riservatole dal destino e dal demonio, messo in atto con la protezione succube di reverendi e cardinali membri della sua potente famiglia di principi e ministri, imparentata con il Re di Polonia. Con piglio sdegnoso rivolge espressioni sprezzanti all’invisibile paggio nano Janos impietrito dal terrore, mentre lei affronta “col decoro e la dignità” consoni al suo rango la triste circostanza dell’arresto, azione della quale il capitano si dovrebbe vergognare poiché impedisce a una dama di continuare a coltivare la sua bellezza.
Diafana, bella, altera, coi biondi capelli acconciati a boccoli e il corpo che sboccia dal sontuoso abito rosso sangue disegnato da Silva Bruschini, Melania Fiore incarna il folle narcisismo della sanguinaria contessa con aristocratico compiacimento e guizzi luciferini negli occhi, trangugiando gocce di sangue vermiglio da una fialetta, ormai l’ultima, che dovrà servire anche per il maquillage finale, poiché senza la sua bellezza lei non esisterebbe (chirurgia estetica ante litteram).
Scalpitio e urla: i gendarmi hanno scoperto le camere delle torture nelle segrete e conducono al rogo come streghe le serve. La contessa sa che a lei sarà riservata la sorte orrenda di essere murata viva, una morte lenta che offende la dignità. Lancia il suo anatema verso Dio che non conosce l’amore al quale lei ha dedicato tutta la vita: l’amore di sé, per il trionfo del quale il delitto è un diritto.
La scrittura dotta e quasi sottilmente compiacente di Manfridi, che cura anche la regia, tratteggia un noir in cui la protagonista difende un destino e declama un testamento, assecondata dalle musiche di Antonio Di Pofi e dalle luci di Riccardo Santini.
Il costrutto lessicale e sintattico del drammaturgo evoca icasticamente l’universo emotivo e le dinamiche psicologiche della donna, cui lo spettatore finisce quasi per aderire, dopo l’iniziale riluttanza. Tale è la potenza attrattiva della parola colta e raffinata che attinge ai classici, e che ancora una volta testimonia la vocazione creativa e l’abilità affabulatoria di Manfridi, capace di trasferire l’orrida storia di una criminale seriale in un diverso piano di realtà, in cui la tensione del racconto coinvolge e fa trepidare per la sua sorte.
Il testo è pubblicato dall’Editrice La Mongolfiera.