In questo “dramma della memoria” come lo ha definito lo stesso autore, la vicenda prende vita dal racconto di Tom che evoca un suo ricordo della madre e della sorella.
Quando anch’egli entra in scena, ci troviamo in un interno familiare, negli anni ’30 del secolo scorso, nel sud degli Stati Uniti. Amanda, abbandonata dal marito, ha cresciuto da sola i suoi figli, pervasa dalla nostalgia per la sua bellezza trascorsa che le faceva conquistare nugoli di corteggiatori ma con la quale non è stata capace di procacciarsi il partito migliore. Il rapporto con i figli è amorosamente ossessivo: Tom trascorre le notti ad alimentare la sua passione per il cinema, cercando spazi di libertà dalla straripante personalità materna; Laura non ha concluso gli studi e vive rinchiusa nel suo mondo in cui gli unici amici sono gli animaletti dello “zoo di vetro”, come lo definisce la madre. La ragazza ha staccato i contatti con l’ambiente circostante, vergognandosi di essere claudicante. Amanda, sempre persa dietro i suoi amori giovanili, minimizza il disagio fisico e non mette a fuoco le fragilità psicologiche e mentali della figlia alla quale, invece, nella sua concezione perbenista, vuole trovare marito come unica possibilità di affermazione sociale, incaricando Tom di invitare a cena qualcuno dei suoi amici.
La sera stabilita, la donna cucina, apparecchia con cura la tavola e indossa un vestito vaporoso che portava da ragazza, lusingata che il fisico le consenta ancora di sfoggiarlo. La ritrosa Laura non riesce nemmeno a sedersi a tavola, riconoscendo in Jim il ragazzo di cui si era infatuata al liceo. Rimasta sola con lui, Laura gli confessa il suo amore, il giovane sembra assecondarla e le suggerisce di avere più cura di sé, poi, bruscamente, le rivela di essere fidanzato. Inavvertitamente l’unicorno di vetro della collezione cade e il corno si spezza, Laura lo raccoglie e lo dona a Jim come regalo di nozze, chiudendosi nel silenzio.
Cacciato via dalla madre, Toma torna ad essere voce narrante e confessa di avere ancora uno struggente ricordo della famiglia.
Tennessee Williams scrisse il testo nel 1944, traendolo dalla sua novella di dieci anni prima “Ritratto di una ragazza di vetro” dalla forte connotazione autobiografica, in cui il personaggio di Laura ha spiccati riferimenti ai problemi psichici della sorella Rose e all’introversione e alla timidezza dello stesso Tennessee. La vicenda viene filtrata attraverso la memoria di Tom, i suoi ricordi e i suoi sentimenti, con la distorsione prospettica ed emotiva del tempo trascorso.
I comportamenti che sembrano veicolare buone intenzioni si fondano, in realtà, su un substrato di egocentrismo e ipocrita disponibilità, camuffando con la finta attenzione una voglia di protagonismo. Solo Laura, dimessa e riservata, è in equilibrio con la propria interiorità, fragile come i suoi animaletti, ma umana.
La messa in scena si regge, quasi esclusivamente, sul talento e la vitalità di Pamela Villoresi che conferisce ad Amanda il giusto amalgama di svagata levità e possessivo affetto nei diversi registri, rendendola costantemente inadeguata al ruolo educativo e protettivo di madre, evitando il grottesco.
Elisa Silvestrin, diafana e leggiadra, è una credibile Laura, Maurizio Palladino esprime la rabbia e l’irrequietezza di Tom e Alberto Caramel è Jim. La regia di Giuseppe Argirò affronta con mano lieve il testo, sottolineando qualche aspetto involontariamente comico in un contesto di inquietudine e disagio di vivere.