Nel centenario della nascita di Arthur Miller va in scena al Parioli questo lavoro, ritenuto uno dei testi più significativi della drammaturgia americana del Novecento, nella traduzione di Masolino D’Amico con la regia di Enrico Lamanna e le musiche originali di Pino Donaggio.
Scritto nel 1955, affronta il tema, allora di pregnante attualità, dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti, all’inseguimento del sogno americano di benessere e stabilità vissuto da milioni di italiani fuggiti dalla povertà del nostro meridione, con estenuanti viaggi nelle stive dei piroscafi che solcavano gli oceani per approdare nell’avveniristica New York che dava corpo ai sogni.
Miller mette a fuoco le difficoltà e le resistenze degli immigrati all’integrazione e all’accettazione di usi e costumi ritenuti troppo permissivi.
Un’aura di tragedia incombe dall’inizio, sottolineata dalle luci livide che fendono le brume del porto su cui appare sospeso il ponte di Brooklyn. Quel ponte che demarca il territorio fisico e lo stato d’animo: da una parte le speranze di chi sbarca in una terra gravida di promesse, dall’altra le disillusioni di una vita durissima e priva di radici.
Una scenografia che somiglia a un ring, con un’ampia pedana sopraelevata delimitata da parapetti, o forse, l’ideale prolungamento della tolda di una nave dietro cui appare, sfumato nella nebbia, un’arcata del ponte che incornicia il porto, sembra essere uno spazio troppo stretto per la mole e la congerie di sentimenti di Sebastiano Somma, lo scaricatore Eddie Carbone. Alto, massiccio, con indosso una canottiera e braccia penzoloni, all’inizio è il gigante buono che coccola e protegge la giovane Catherine, nipote della moglie, immaginando per lei un riscatto sociale e un roseo futuro, poi è una roccia inscalfibile di sentimenti repressi.
Ma la vita continua ad essere aspra e dall’Italia arrivano altri cugini immigrati clandestinamente che bisogna nascondere, i fratelli Marco e Rodolfo. Uno ha lasciato moglie e figli piccoli, l’altro è giovane, biondo e di temperamento artistico, Catherine se ne innamora e medita di sposarlo. Ciò è insopportabile per Eddie: dapprima tenta di denigrare il giovane per i modi gentili e le fattezze delicate, poi lo accusa di mirare alla cittadinanza americana, infine lo denuncia insieme al fratello all’ufficio immigrazione.
La luna è sorta e tramontata più volte sul bordo della pedana, quando la tragedia inesorabilmente si compie.
Un torbido fatto di cronaca avvenuto anni prima aveva indotto Miller a scrivere questo testo sull’orrore di una insana passione che arriva a distruggere un individuo, sullo sfondo di un contesto di immigrati italiani non integrati. Oggi viviamo l’esperienza a parti ribaltate, vedendo sbarcare quotidianamente centinaia di disperati che fuggono dalla fame e dalla guerra aggrappandosi al miraggio di una vita migliore.
Il dramma di Miller è stato portato sulle scene per la prima volta in Italia nel 1958 da Luchino Visconti con Paolo Stoppa e Rina Morelli, nel 1967 da Raf Vallone, poi da Gastone Moschin e infine da Michele Placido.
Apprezzabile la soluzione registica del narratore a bordo ring, che svolge anche il ruolo dell’avvocato che suggerisce a Eddie di rinunciare ai propositi di ostacolare il matrimonio.
Bravi gli altri interpreti: Sara Ricci, Roberto Negri, Matteo Mauriello, Cecilia Guzzardi, Edoardo Coen, Andrea Galatà, Antonio Tallura.