Luca Barbareschi affronta la narrazione della sua vita sulle tavole del palcoscenico da autentico mattatore. Sempre controcorrente rispetto alla collocazione politico-culturale dominante, ha dato prova, in questi ultimi tempi, di aver raggiunto una consapevolezza artistica e umana che lo guida a effettuare scelte professionali ardite e lungimiranti, impegnandosi nella riqualificazione del Teatro Eliseo coinvolto nelle note vicende che ne avevano determinato la chiusura.
Questa performance è un mosaico di episodi, aneddoti, considerazioni, ricordi e visioni oniriche che si svelano allo spettatore, mentre egli stesso “svela” (togliendo i bianchi teli che li ricoprono) gli strumenti musicali disseminati sul palcoscenico, che suonerà accompagnandosi nel corso dello spettacolo.
Parte proprio dall’inizio, da quando i genitori si imbarcano su una nave diretta in Uruguay, il padre capo progetto della Edison e la mamma che lo porta in grembo piccolo come un fagiolino, insieme alla Compagnia dei Giovani con Giorgio Albertazzi in tournèe in Sud America. I giornalisti che li accolgono all’arrivo scambiano la madre per Anna Proclemer, segnando il destino artistico del nascituro.
Con ritmo incalzante e tono ora scanzonato, ora sommesso, ci proietta il film dell’infanzia nella casa di Montevideo accanto al negozio dell’antiquario, con i due ambienti che si intersecano e confondono.
Contrapposizione e commistione sono i capisaldi che caratterizzano tutta la sua vita: il padre severo e la madre distratta, l’ascendenza ebraica e la formazione cattolica, l’educazione formale e la giovinezza disordinata, il positivismo paterno e la personale inclinazione artistica, la brama di libertà e il desiderio della famiglia numerosa, la scelta di sperimentare varie strade tra cui quella politica e la consapevolezza attuale che “l’unico atto veramente rivoluzionario è fare bene il proprio mestiere”.
Passa da un registro all’altro senza soluzione di continuità, stimolante e suadente nell’agile slalom tra i ricordi e gli strumenti, recitando, cantando e muovendo passi di danza con ironia, nostalgia e disincanto. La soggezione verso l’autorevole genitore che lo trascinava in improbabili escursioni sulle Ande, l’affidamento alle zie Piera e Pina dopo l’abbandono materno, i rituali ebraici frammisti alle funzioni cristiane, gli studi nel collegio dove è oggetto di attenzioni insane, l’avvio alla recitazione a New York, gli amori, i figli, la tardiva serenità. “Credo nella teoria ebraica dell’inciampo – afferma – cadi ma poi ti rialzi più forte di prima”.
Una drammaturgia autobiografica, veicolata con ironia e leggerezza dalle parole degli autori che ha amato: la saggezza di Shakespeare, la sagace ironia di Mamet, le citazioni di Tomasi di Lampedusa, Eschilo, Leopardi, in una girandola di verità attraverso cui rende universali gli episodi personali.
Uno spettacolo dedicato a chi sa guardare oltre i limiti personali e i confini del mondo, proiettandosi nell’universo inseguendo il baluginio delle stelle, vivendo, amando e mettendosi in gioco. Trasparente sotto il riflettore, si racconta schivando pudori e spavalderia, facendo vibrare le corde del cuore e della chitarra e i tasti del pianoforte, sempre accompagnato dalla band di Marco Zurzolo e dalla vocalist Angelica, sua figlia, sulle note di Mozart, Simon & Garfunkel, Elton John, James Taylor, Chico Buarque. Una vitalità debordante, ancora dopo 40 anni di carriera tra cinema, teatro, televisione, lungo un excursus esistenziale che corre veloce con la regia attenta di Chiara Noschese.
“Mento per dire la verità” chiosa rivolto al pubblico. Infatti la vita è palcoscenico e il palcoscenico è vita. Sorprendente, coinvolgente, irrefrenabile, da applausi.