Dramma buffo in tre atti
libretto di Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti
musica di Gaetano Donizetti
Prima rappresentazione: 3 gennaio 1843, Parigi, Théâtre Italien
(recita di domenica 15 novembre 2015, ore 16)
È del regista il fin …la comicità…
Ma Don Pasquale non è un’opera comica, bensì un insieme di poesia, patetismo, ironia, sarcasmo, opportunismo e una punta di cattiveria che provoca dolore.
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Un minuto di silenzio per solidarietà con i fratelli parigini vittime dell’attentato del 13 novembre, poi la Marsigliese registrata.
La cifra stilistica della scenografia è il denaro e l’obiettivo del regista è la risata.
Il sipario a metà palcoscenico è la porta con ingranaggio di una cassaforte che a un certo punto si apre su un’enorme caveau pieno di lingotti d’oro, banconote e monete d’oro. Una grande foto dice chi ne è il proprietario, Pasquale da Corneto. C’è forte contrasto tra la pesantezza metallica della cassaforte e la leggerezza floreale del giardinetto, perché c’è forte contrasto tra i due mondi, quello del vecchio taccagno e quello dei giovani innamorati.
Molto colore e pochi arredi finché non ci mette le mani la neo sposa Sofronia, che compra un sontuoso salotto bianco.
Norina vien calata dall’alto aggrappata ad una corona di fiori, Ernesto scende da una scala laterale, tutti gli altri entrano ed escono da varie porte.
Freschi, floreali, bamboleggianti col sottogonna, coloratissimi (magnifico l’abito fuxia col boa per la signora biondissima che va a teatro), gli abiti di Norina, che però è vestita di nero quando recita la parte di Sofronia, casual quelli di Ernesto col classico pullover a V profilato, tutti in stile anni ’60; completo e bombetta azzurri e grande fiore rosa all’occhiello, capelli bianchi, occhiali per il dottor Malatesta, un po’ mago un po’ affabulatore, con ventaglio o acchiappafarfalle. Don Pasquale indossa vestaglie da casa di lusso, ha anche una spilla col simbolo del dollaro, ma è sempre scarmigliato e agitato, solo lo schiaffo arresta l’azione per dar spazio all’incredulità e al dolore, che esplode in una frase insolita per quel periodo: “divorzio, divorzio!”, parola nuova per la Roma papalina dove l’opera è ambientata, ma non per la libera Parigi dove l’opera fu data nel 1843 al Théâtre des Italiens e dove si conosceva già la prassi del divorzio. Divisa da camerieri per i componenti del coro.
La regia è fantasiosa, sovrabbondante e con qualche imprecisione di base.
Originale l’idea della cassaforte che oltre al denaro tiene serrata anche la vita del suo padrone, eloquente il voltafaccia della servitù che approfitta dello smarrimento di Pasquale schiaffeggiato per saccheggiare il caveau (con le tasche piene di soldi anche il curvo maggiordomo si raddrizza), gradevole il mondo floreale dei due giovani innamorati che si muovono con leggiadria, romantico il piccione viaggiatore che porta a Norina un messaggio di Ernesto, centrata la figura del vecchio avaro con smanie giovanili e pretese da padrone (ma Bordogna è anche regista di se stesso), ci può anche stare un notaro mezzo accecato e barcollante, ma un po’ troppo pompati sul versante comico Malatesta e il maggiordomo, che spesso con le loro gags, peraltro datate, disturbano l’intimità dei duetti d’amore e il clima estatico dei momenti di tristezza, di gusto discutibile la foto di Berlusconi sulla copertina di Vogue che ha in mano Norina mentre scende dall’alto (riferimenti alle smanie senili di un ricco?). Inoltre perché i servitori sono tutti sciancati? Forse costano di meno? Il regista ha perso due momenti importanti per dar rilievo al dettato musicale: l’aria “Povero Ernesto” è stata privata dell’atmosfera nostalgica e dolente e disturbata dalle faccende del servitore, la pagina molto dinamica, di gusto rossiniano con crescendo, “Che interminabile andirivieni”, che descrive il trambusto e la confusione esistenti in quella casa, è stata cantata in assoluta immobilità, dopo l’accaparramento dei soldi sparsi.
Scene e costumi di Lorenzo Cutùli, regia di Andrea Cigni, light designer Fiammetta Baldiserri.
Sul piano vocale domina la figura di Don Pasquale, pur non avendo una grande aria, grazie alla versatilità di Paolo Bordogna; il basso, noto per la sua arte interpretativa e creativa, conferisce credibilità al personaggio con gesti spontanei e variegate espressioni del volto, con la solidità di un mezzo vocale pieno e imponente in tutti i registri, sicuro negli appoggi, flessibile e agilissimo nel canto sillabato fitto e serrato (quartetto “Io son tradito”, riferito anche alla servitù che qui lo saccheggia dei suoi averi).
Gli fa da buona spalla il baritono Pablo Garcia Ruiz, fantasioso interprete di un lezioso dottor Malatesta. Il baritono porge bene una voce dal bel timbro scuro, ampia, rotonda e pastosa (“Bella siccome un angelo”), ed è abilissimo nel canto sillabato.
Maria Mudryak è una Norina vezzosa e provocante che mostra le gambe, il soprano si fa apprezzare per la tenuta scenica e l’arte interpretativa, possiede un mezzo vocale di certo volume e possente negli acuti che a volte sono gridati, trilla e gorgheggia con facilità, anche se il timbro è piuttosto pungente, il suono è secco e robusto.
Il giovane tenore Pietro Adaini in abiti moderni nel ruolo di Ernesto è dotato di vocalità chiara, decisa ed estesa, arriva facilmente alla tessitura acuta, ma i suoni non sono in maschera e a volte si inaspriscono e si stringono negli acuti che pertanto non s’illuminano.
Il notaio è il caratterista Claudio Grasso.
Le voci scure sono morbide, le voci acute sono puntute.
Il Coro lirico marchigiano “V. Bellini”, preparato da Carlo Morganti, era misero di numero, quindi anche la resa sonora era ridotta.
Il direttore Giuseppe La Malfa con l’Orchestra Filarmonica Marchigiana tiene tempi dilatati nell’Ouverture, il suono orchestrale è delicato e vivacizzato dai trilli dell’ottavino. A volte però il volume aumenta e copre le voci, come spesso succede in questo teatro.
Alla fine spicca una grande insegna luminosa di ROMA, città in cui è ambientata l’opera.
La stessa produzione con lo stesso cast era stata allestita al Teatro Donizetti di Bergamo lo scorso ottobre.