con Silvia Calderoni
regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
drammaturgia Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
suoni Enrico Casagrande
in collaborazione con Paolo Baldini e Damiano Bagli
luce e video Alessio Spirli
produzione Elisa Bartolucci e Valentina Zangari
promozione Italia Sandra Angelini
distribuzione estera Lisa Gilardino
produzione Motus 2015 in collaborazione con La Villette – Résidence d’artistes 2015 Parigi, Create to Connect (EU project) Bunker/ Mladi Levi Festival Lubiana, Santarcangelo 2015 Festival Internazionale del Teatro in Piazza, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, MARCHE TEATRO
con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna
———–
Rapportarsi a una compagnia come i Motus che ha alle spalle venticinque anni di sperimentazione teatrale è certo un’esperienza intensa che stimola la nostra relazione con il teatro, spingendoci a porci molte domande sul nostro essere seduti in platea.
Per poter tracciare una riflessione su MDLSX, regia dei fondatori Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, ci sembra giusto partire da uno degli istanti finali dello spettacolo, vale a dire da quell’accendersi di luci rosse sulla platea, su quelle “facce che guardano” e che dunque hanno assistito ad una narrazione su una progressiva metamorfosi di un corpo – che sulla scena è quello di Silvia Calderoni – la cui identità sessuale trascende da ambe le categorie biologiche, dai fissi corredi cromosomici XX e XY. Chiara è la presenza del connubio teatro-sessualità, elementi che si compenetrano avendo come comune denominatore l’interminabile, spesso sofferente, esplorazione di sé e della relazione io-mondo votata ad una continua estensione oltre i limiti identitari, qui decostruiti mediante una sorta di rito sensoriale, uditivo e visivo.
Al centro dunque un corpo androgino, soggetto performativo dello spettacolo che attraverso l’attivazione di video, proiezioni e di una lunga tracklist musicale che si rifà a gruppi sperimentali (tra cui Talking Heads, Stromae, Dead’s Men Bones, Yeah Yeah Yeahs, College & Electric Youth), costruisce una narrazione con una simultaneità di linguaggi – musica, parola, corpo e immagini – che dà luogo ad un percorso cronologico intimo e personale che dalla propria esperienza “genetica” trae domande e riflessioni che portano a reinterpretare il rapporto fra individuo e società.
Sull’assito prevale il colore metallico; metallico è il fondale sul quale vengono proiettati i video in una piccola sezione circolare, il testo dello spettacolo in lingua inglese, i titoli e gli autori delle tracce audio; metalliche sono le due strutture snelle che sorreggono le apparecchiature dalle quali la stessa performer lancia musica e immagini, e di un simile colore è una sorta di tappeto d’alluminio adagiato a terra. Il filmato di una bambina ed il suo papà alle prese con un karaoke che compare inizialmente sullo schermo circolare è complementare a quello che chiude lo spettacolo, nel quale si è in definitiva compiuta la scelta della protagonista che ritorna a ballare con suo padre con un’identità differente. Tra l’uno e l’altro vi è il corpo di Silvia Calderoni e le relative inquadrature da più parti, mediante una telecamera che possiede e che è collegata allo stesso schermo. La proiezione dello stesso corpo che vediamo sulla scena ci chiama ad essere interamente coinvolti nella progressiva scoperta della sua doppia natura sessuale che parte dal racconto dello pseudo-sviluppo (del tutto incompleto) femminile e giunge a quello maschile col quale “fiorisce” il secondo sesso, quel “croco fra le gambe” che conferma del resto le precoci e quindi precedenti manifestazioni di una diversità. Con il richiamo ad una profonda attenzione (“Can you hear me?”) s’intraprende un percorso dalla propria infanzia, mediante una vera e propria filmografia familiare in cui l’occhio materno coincide con l’obiettivo di una vecchia cinepresa che riprende quella bambina alla quale prima della nascita il caso ha attribuito il sesso F e con il quale i membri della famiglia la riconoscono. Contarsi i peli, esplorare il pube, camuffare seni e peli sotto le ascelle, vedere come i corpi delle sue coetanee si trasformano secondo una “normale” crescita sono tutte azioni che la Calderoni ci imprime visivamente e si traducono in una ricerca di equilibrio “altro” che è possibile solo quando si trascendono le categorie sociali, politiche e biologiche per rinvenire ciò che chiama “dell’impossibile me, dell’impossibile noi”. Il lavoro della Calderoni, di Casagrande e Nicolò non si avviluppa in una condizione soggettiva legata alla sola questione di identità di genere, ma matura nella consapevolezza di un noi, un noi che sta per minoranze, fragili categorie sociali che la “somatopolitica” considera non funzionali da un punto di vista economico o senza possibilità riproduttive: quei tanti noi diversi che nell’essere definiti minoranze (gay, trans, disabili, diseredati di vario genere), rappresentano l’interezza del genere umano (parafrasando alla larga le parole della Calderoni in un’intervista). “Vorrei tenerli insieme abbastanza a lungo da disarmare lo stato” risuona come manifesto ideologico che i Motus traggono anche dallo loro lunga esperienza di residenze nelle periferie d’Italia, di Francia e di Germania, dove il mondo sommerso degli emarginati (da cui nasce il lavoro ics, i racconti crudeli della giovinezza) è divenuto linfa per il loro teatro e li ha stimolati ad una visione mosaicata della realtà nella quale individuare in “un’unica partitura di corpi tutti coloro che stanno annegando” (da ics, i racconti crudeli della giovinezza).
“Siamo tutti fatti di altre parti” si dice ad un tratto nel corso della performance svelando l’appartenenza di quel corpo ad una terra di mezzo (perciò “Middlesex”) o di confine nel quale i margini si fanno sempre più sottili. Ispirandosi al Manifesto Contra-Sexual di Paul Beatriz Preciado, fondamento dell’ideologia queer, i Motus ne riescono a cogliere l’aspetto linguistico e politico. La coesistenza dell’apollineo e del dionisiaco, del mostruoso nella bellezza, infatti, s’innesta in forma antitetica nella narrazione e nella relazione fra individuo e società diviene drammatica scissione tra normalità e anormalità, fra desiderio di una personale ed unica intimità e convenzione; non a caso la ricerca della parola all’interno di un vocabolario che possa fornirci la personale ed “esatta” identità ha un valore enormemente emblematico. Il passaggio da ipospadia, eunuco, ermafrodito, mostro comporta la degradazione di quel corpo tramite una categorizzazione convenzionale e condivisa che lo inchioda automaticamente ad un’emarginazione irreversibile. Tale degradazione linguistica è un processo applicabile a qualsiasi gruppo umano che si ritenga minoranza e di cui con una peculiarità si sancisca una condanna. Condanna linguistica equivale a condanna politica per la quale ogni vita è fatta prigioniera di una categoria sclerotica, di un “nazionalismo” ad oltranza le cui delimitazioni rappresentano il contrappeso contro il quale drammaturgia e performance canalizzano la sua forza.
Eppure, tutti siamo pezzi di tutti; la fuga dal nucleo familiare (la prima microcellula sociale che le voglia imprimere una scelta che la condannerebbe ad una tragica parzialità), la percorrenza di uno spazio geografico e interiore che accentua le distanze da qualsiasi tipo di classificazione biologica, l’accettazione di entrambe le nature conduce il personaggio all’esplorazione di un intero mondo di “metamorfosi sessuali” quali condivise da tutti, da etero e non, donne e uomini, la cui natura intima ritrova la sua verità riconoscendole desideri che appartengono anche ad altri, a chi si ritiene diverso geneticamente da sé, costituendo un unico pubblico di “facce che mi guardano” sulle quali si fa luce: siamo noi seduti a guardare MDLXS. Non è questione di voyeurismo, azzardiamo invece un’altra ipotesi e cioè di aver condiviso uno spazio – quale quello del teatro – in cui attraverso il viaggio intimo di un corpo e della sua ribellione ad una forzata categorizzazione, non abbiamo tratto alcuna verità ma solo un buon metodo (che sia il teatro stesso?) per porci domande su questa progressiva sclerotizzazione sociale che la paura dell’altro (potenziale “scandalo” che sopprimiamo in noi stessi) cementifica con inaudita spietatezza.