Pensiamo ad autori conosciuti come “grandi” o “maestri” della letteratura, della musica, dell’arte. Immaginiamo quanto, resi celebri dalla loro genialità e potenza creativa, siano considerati intoccabili e da guardare con ossequioso rispetto. Due nomi: Wystan Hugh Auden e Benjamin Britten; alla loro opera ci si accosta ammirati, carichi di venerazione e con reverenziale modestia. Il drammaturgo inglese Alan Bennett non lo fa, o almeno, non fa solo questo: la sua pièce “Il vizio dell’arte” scava nella vita privata, porta in luce contraddizioni, debolezze, estrosità. Analizzando le personalità del poeta e del compositore, Bennett ne ricava un testo ironico, spregiudicato, concreto. Non esistono piedistalli in questa messa in scena, tutti sono letti nella loro interezza, non solo attraverso ciò che appare ai più. Auden non è solo le sue poesie e Britten non è solo la sua musica. Allontanandosi dal cliché che vede nel testo l’espressione unica e assoluta del carattere del suo autore, il drammaturgo britannico decide di raccontare un’altra verità, una verità più scomoda e per molto tempo celata. Ne “Il vizio dell’arte” non ci si nasconde dietro perbenismi e si affrontano con gustoso umorismo le difficoltà con cui ci si scontra a causa della propria, specifica indole, spesso perversa. E l’errore e il vizio, nelle differenti declinazioni, appartengono a tutto il genere umano, per questo il testo di Bennett cattura l’attenzione e centra l’animo dello spettatore. Non è la natura omosessuale dei due protagonisti che diventa il fulcro della storia, ma il loro modo di affrontare la vita.
Due amici, due talenti, due anime nobili e affini, ma estremamente diverse. Auden è colto in un momento di sconforto, quando ormai vive annoiato le sue lunghe giornate all’Università di Oxford, barcamenandosi tra tesisti e insoddisfazioni professionali: non riesce più a scrivere come un tempo, non è più capace di tirar fuori la scaltrezza e la genialità delle prime composizioni. La sua esistenza è scandita da una maniacale attenzione alle ore che passano (su cui la pièce teatrale gioca spesso), dalla solitudine e dalla completa noncuranza delle norme igieniche. Per le sue abitudini poco comuni (come far pipì nel lavandino) è preso in giro dai domestici che, con disgusto, rassettano la sua stanza; per la sua ossessione alla puntualità e al bisogno di soddisfare le proprie voglie finisce per scambiare un tesista per un prostituto e, nell’ultima parte del testo, quando incontra dopo tanti anni il suo amico musicista, dà anche segni di demenza senile ripetendo più volte le medesime cose. Britten, al contrario, è un personaggio molto più moderato, che si dice soddisfatto della propria vita e dei propri successi musicali, ma è un uomo che non riesce ancora ad accettare con la stessa disinvoltura di Auden il giudizio del pubblico, è preoccupato del decoro e del senso del buongusto. È per questo che dopo tanti anni, nel testo di Bennett, torna dall’amico poeta: vuole che lo spinga ad andare avanti, che lo incoraggi a portare a termine il suo ultimo progetto musicale “Morte a Venezia”, nonostante il tema possa risultare scottante agli occhi degli spettatori. Celando quasi a se stesso la sua natura, Britten infatti non osa riconoscersi in Gustav “von” Aschenbach, il protagonista del romanzo di Thomas Mann, che ormai cinquantenne si innamora di un ragazzino quattordicenne. Sarà Auden allora, con il suo fare spregiudicato, il suo irriverente menefreghismo, la sua intraprendenza a fargli riconoscere quanto non serva nascondersi dietro il velo dell’innocenza e sia meglio piuttosto vivere assecondando le proprie passioni artistiche e le proprie emozioni.
Alan Bennett scrive “non è stato facile scrivere Il vizio dell’arte, nonostante la sua forma piuttosto semplice. C’erano molte informazioni da convogliare verso il pubblico su Auden, Britten e la loro collaborazione di un tempo. […] mi venne in mente che la difficoltà di spiegare i fatti poteva in larga parte essere risolta se la commedia veniva inquadrata in una sala prove”. Ed ecco perché il pubblico, appena entra in sala, si ritrova davanti non solo il palco ma anche le quinte e, attraverso l’escamotage del teatro nel teatro, i personaggi si moltiplicano, si confondono tra i piani, si mescolano nella storia. La prima scena vede infatti l’ingresso di tutti gli attori, prima che diventino i personaggi della nuova produzione del National Theatre, “Il giorno di Calibano”, testo in cui si racconterà appunto dell’incontro tra Auden e Britten, ormai giunti al tramonto della vita. L’espediente delle prove permette però a Bennett di far parlare anche chi il mondo del teatro lo fa: gli attori, l’autore, il regista. In un gioco di voci che si contrappongono, di personaggi che fremono per avere un ruolo più importante, di prese in giro e di scontri di idee, viene alla luce tutto ciò che è dietro una rappresentazione. Comprendiamo le paure degli attori, bisognosi di conferme e di plausi, assistiamo a come le scelte registiche spesso cozzino con quelle autoriali, vediamo in scena i capricci e le passioni di chi deve dar vita ad un testo. In un continuo rimando tra la realtà e la finzione, tra un teatro e un altro, tra musica e parole, lo spettatore si compenetra ora in uno, ora in un altro personaggio, si abbandona al sorriso grazie a scenette spassosissime e alla formidabile bravura degli attori in scena. Ferdinando Bruni è un irriverente, disinibito, sfrontato Auden e, allo stesso tempo, la voce dell’attore che deve portarlo in scena, contrario all’ostentazione dell’aspetto libertino e dissoluto e interessato piuttosto a far emergere la figura del poeta e della sua grandezza letteraria. Elio De Capitani interpreta con sorprendente versatilità tre personaggi, riuscendo a caratterizzare molto bene ciascuno: è il domestico pettegolo e l’attore omosessuale che interpreta Britten, oltre che Britten stesso: un uomo talentuoso, simpatico e fintamente ingenuo, malinconico e acciaccato dalla vecchiaia, che fa sorridere e che commuove. Accanto ai due protagonisti una schiera di validi attori: la bravissima Ida Marinelli, nei panni di “sostituta regista” che racconta quanto sia difficile il mestiere dell’attore, Umberto Petranca, biografo che ha paura di diventare un personaggio “di servizio”, la “marchetta” Alessandro Bruni Ocaña, il polemico e insoddisfatto autore del testo da mettere in scena Michele Radice, l’attrezzista e suggeritore Vincenzo Zampa.
“Il vizio dell’arte” diventa, nelle loro voci e nei loro corpi, un compenetrarsi continuo di arte e vita, diventa bellezza, passione, emozioni.
Spettacolo che diverte e fa riflettere, merita di esser visto!
————
“Il vizio dell’arte” di Alan Bennett
traduzione di Ferdinando Bruni
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
costumi di Saverio Assumma
musiche dal vivo Matteo de Mojana
con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli, Umberto Petranca, Alessandro Bruni Ocaña, Michele Radice, Vincenzo Zampa, Matteo de Mojana
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
produzione Teatro dell’Elfo