Mentre andavo all’Elfo Puccini ad assistere all’incontro di due personalità artistiche (Vincenzo detto Enzo Jannacci e Moni Ovadia) certamente diverse ma con una base comune le cui radici affondano nel tormentato disagio esistenziale e nel dolore degli “esclusi”, temevo che quell’emozione gaglioffa che inumidisce gli occhi avrebbe potuto giocarmi un brutto scherzo. E non mi sbagliavo.
Ogni canzone è stata un ricordo straziante dell’amicizia che mi ha legato ad Enzo negli ultimi anni della sua vita. Il ricordo delle confidenze notturne, dei suoi sorrisi intrisi di malinconia, del suo vitalismo appannato, della sua grande sapienza medica alla quale ricorrevo quando qualche problema mi assillava.
La poetica espressa nelle sue canzoni nelle quali dà voce alla povera gente, ai perdenti, agli esclusi si vede in filigrana anche nelle canzoni più allegre, apparentemente meno impegnate.
Enzo è stato, anzi è un artista dalle mille sfaccettature, uno stralunato, eccentrico, poliedrico artista con l’espressione fissa di Buster Keaton e una voce tagliente, senza vibrazioni. Ed è con questa espressione e con questa voce “sporca” (che nega il “bel canto”) che Jannacci riesce a trasmettere quelle emozioni che solo la poesia e l’arte sanno dare. Quale sarebbe l’impatto espressivo, disse in una conferenza stampa, se la canzone “Vengo anch’io, no tu no” fosse cantata dalla bella voce pulita e impostata di Baglioni? Enzo è un artista a tutto tondo che spesso spiazza l’ascoltatore. Non si sa come definirlo: musicista, cantante, attore, drammaturgo, poeta, regista. Ed è in questa serie di sei momenti teatrali che Jannacci fa vibrare, di volta in volta, tutte le corde della sua arte. Assistiamo nelle sue canzoni alla contaminazione di generi secondo un canovaccio che non perde mai di vista quell’ispirazione originaria che nasce dal bisogno di denunciare tutte le ingiustizie e le soprafazioni inflitte ai poveri del mondo. Quella di Jannacci è un grido angosciante contro la miope e colpevole politica che impone attraverso i mass media stili di vita senza valori dove l’apparire prevale sull’essere e il consumo è sacralizzato come un totem. È lui, d’altra parte che lo dice: la mia denuncia è “not politically correct”.
Ma torniamo alle canzoni. Un Moni in grande spolvero ci ha fatto rivivere le più note canzoni di Enzo con una intensità e una vocalità che ci ha fatto spesso dimenticare l’originale. Dalla popolare “Vengo anch’io no tu no” alla famosissima “El purtava i scarp del tennis” a “M’han ciamàa” (una storia di ringhiera e di ligèra), alla struggente “Sei minuti all’alba”, a “Vincenzina la fabbrica” (a proposito un giorno alla mia domanda chi fosse Vincenzina mi ha risposto sorridendo che era lui Vincenzo in versione femminile) alla divertente “Faceva il palo”. Per averci regalato questa serata stupenda, struggente e divertente, straordinaria dobbiamo ringraziare il grande Ovadia e il grandissimo, immenso Alessandro Nidi che ha curato gli arrangiamenti e accompagnato al pianoforte Moni che con la sua istrionica versatilità ci ha immersi nella poetica del grande “menestrello dei poveri”.