«Perché, Pippo, non fai uno spettacolo sul Vangelo? Così dai un messaggio d’amore. C’è n’è così tanto bisogno di questi tempi». Pippo Delbono non ha lasciato cadere nel vuoto il suggerimento di madre qualche giorno prima di morire. Ora quel desiderio è diventato uno spettacolo, presentato in prima nazionale il 19 gennaio al Teatro Argentina di Roma ed inserito nel progetto speciale Teatri del sacro per il giubileo. Il Vangelo riletto da uno dei più discussi autori teatrali contemporanei riflette un animo inquieto ed attento, che cerca il Gesù delle origini, quello conosciuto dagli apostoli e portatore di messaggi rivoluzionari e non quello dal volto doloroso, dell’iconografia buia, pesante e sofferente che la Chiesa offre a profusione. Delbono da quel Cristo che induce a pentirsi di tutto è scappato giovanissimo, attratto piuttosto dai concerti rock, dalle proteste contro il potere e il Vietnam, dalla cultura hippie nei quali “non era importante con chi facessi l’amore, l’importante era l’amore”. Durante le sue esperienze di vita, però, tracce di quel Vangelo sono riemerse e oggi compongono un mosaico visivo e sonoro con precisi contorni. Nel suo personale Vangelo ci sono gli immigrati dell’Africa e del Medio Oriente incontrati come fossero prigionieri nelle piantagioni di mais in Italia, c’è il rifiuto della violenza e delle stragi, ci sono Schubert, i Led Zeppelin e le musiche originali di Enzo Avitabile, ci sono le parole di Pier Paolo Pasolini e Sant’Agostino. Pippo Delbono si destreggia in un linguaggio personalissimo fatto di materiale video e sonoro. Vuole raccontare, documentare, testimoniare. Con l’aiuto di attori e danzatori croati e di un profugo afgano, insieme ad altri componenti fissi della sua compagnia tra cui l’ottuagenario Bobò che ha passato gran parte della sua vita in un ospedale psichiatrico e Gianluca Ballerè con la sindrome di Down, Pippo Delbono dà al suo percorso autobiografico una dimensione universale, dando voce alla memoria portata dagli attori presenti in scena provenienti da terre devastate dalle guerre. Con loro il regista ha convissuto prima nei centri di accoglienza e poi a casa sua per conoscere e dar voce alle loro storie. Nasce così questo spettacolo che non vuole compiacere ma graffiare e far riflettere.