In principio è sempre Dio. Ma poi c’è tutto il resto. Ascanio Celestini è un balbettante novello Gesù Cristo con camicia rossa e cappotto lungo, che vive insieme a Pietro in trentacinque metri quadrati calpestabili affacciati su un supermercato. Attorno a lui, nel condominio dove abita, nel magazzino del supermercato, che dicono siano il più grande d’Italia, il povero cristo si imbatte in tutto ciò che sembra confuta l’esistenza di un dio buono e onnipotente. C’è un barbone nero, che dorme per terra, ma non è sempre stato un barbone; c’è una prostituta che si rassegna a ciò che è giusto e si costruisce un’etica professionale da far scomparire i sindacati, ma non è sempre stata una prostituta; c’è una vecchia che sembra la madonna, ma non crede in Dio, e c’è una donna impicciata che ci crede assai, che scrive lettere alla vecchia per confermare che Dio esiste, ma scrive anche sul quadernetto per ricordarsi che cosa le succede e cosa si ricorda di quando ancora non era impicciata. Perché non è sempre stata impicciata. Poi ci sono i facchini neri del magazzino, con entrambe le mani occupate e un solo modo per sopravvivere al proprio turno: ripetersi che finirà. Chissà se si ricordano di quando ancora non erano facchini. In questa periferia di nuovi lazzari Celestini fa atterrare un Gesù ingenuo, preda di un demone che si prende gioco di lui, un figlio di Dio che non è sicuro di essere nel giusto, un messia che predica in un bar senza pagare la sua sambuca e poi torna a casa a raccontare a Pietro dei prodigi che gli sono capitati. Pietro è un uomo che suona la fisarmonica (Gianluca Casadei) e che parla da lontano con voce tremante di donna (Alba Rohrwacher). Gesù gli chiede di scendere insieme a lui a difendere il barbone, per favore, perché già la vecchia e la donna impicciata sono scese per aiutare il barbone, una scagliandosi contro le guardie e l’altra pregando, se vuoi, Pietro, ma per favore vuoi. Non sa perché la donna impicciata stia pregando, non lo capisce, Gesù, ma almeno qualcosa lei fa. Almeno è scesa, lei, così impicciata. E allora Dio se è buono non è onnipotente, altrimenti il barbone nero non verrebbe picchiato dalle guardie in mezzo a uno sciopero, e se è onnipotente non è buono, perché se no la volta del cielo, che sta scivolando per chilometri e chilometri – anche se ancora non c’è una letteratura scientifica a riguardo – Dio se la reggerebbe da solo, o almeno, al barbone, gli permetterebbe di scioperare. “Ha visto signora? Noi abbiamo assistito a un prodigio. Tre persone nel cuore della notte sono scese in strada per salvare la vita a un barbone”. Celestini riavvicina la divinità alla concretezza terrena, immaginando un dio che si fa uomo e scende sulla terra, un dio che viene da cinquanta metri più là del bar, goffo, esitante, ubriacone. Che non parla di miracoli ma di prodigi, e nemmeno li fa lui. Un dio che sa dove inizia il mare.
Laika è una parabola brutale e intelligente della salvezza, che forse non è eterna, ma è sempre una salvezza. Con un linguaggio semplice e allegorico, Celestini declama un vangelo laico di giustizia e speranza, vestendo d’ironia un senso civico potente e salvifico. Laika è il nome della cagnolina che per prima ha visto lo spazio, più vicina è salita al cielo, e non si è salvata, ma era forte, doveva essere forte per lanciarsi nello spazio. Così l’hanno presa dalla strada, in una di quelle strade dove dormono i barboni e passano camion gialli carichi di pacchi e facchini che finiranno il loro turno.