Si può rendere moderna un’opera lirica ambientata nel XVIII secolo? Si può creare una messa in scena completamente diversa da quella pensata in origine e far aderire musica, parola e costumi essendo credibili? Lo spettacolo “L’Elisir d’amore” di Donizetti allestito da Rosetta Cucchi, andato in scena al Teatro Comunale di Bologna, ci ha provato e, spiazzando tutti i melomani tradizionalisti, ha portato in scena una trasposizione dell’opera completamente diversa dall’originale, creando una profonda spaccatura tra cantato, musica e recitazione. Se tale dissonanza crea, in un primo momento, un po’ di esitazione, poi, sarà per la bellezza della scenografia, sarà per i costumi, per i colori, per l’aspetto frizzante, a un tratto sembra che tutto funzioni bene e che la dicotomia serva a far riacquisire senso a un’opera attraverso un viaggio spazio temporale che la avvicina ai nostri giorni e la rende più godevole.
Nell’originale libretto di Felice Romani siamo verso la fine del XVIII secolo e i protagonisti de “L’Elisir d’amore” vivevano in un villaggio dei Paesi Bassi, qui invece siamo all’incirca negli anni Ottanta, in una scuola d’arte americana piena di giovani studenti energici e ambiziosi. Adina (nella serata da me vista rappresentata dalla brava Rocio Ignacio) non è più una bella e ricca fittavola ma la beniamina dell’istituto e reginetta delle cheerleader mentre Nemorino (Fabrizio Paesano, molto convincente nei panni del timido e impacciato protagonista) è una specie di nerd, zimbello di tutta la scuola, non più il giovane contadino pensato da Felice Romani. Anche i soldati vengono trasposti e diventano una gang di motociclisti al cui comando c’è Belcore e, quando Nemorino decide di arruolarsi per amore è affiliato alla banda del suo rivale con tanto d’iniziazione e firma di sangue. E poi c’è Dulcamara, il ciarlatano che vende a Nemorino un fantomatico Elisir d’amore in grado di far cadere l’amata tra le sue braccia, che qui entra a cavallo di una moto di grossa cilindrata sulla quale è esibita una foglia di Marijuana e, infatti, si rivela essere uno spacciatore un po’ sempliciotto e lamentoso, una riuscita parodia insomma di uno di quei tanti hippies che non accettano il tempo che passa.
Due sono gli aspetti che colpiscono di quest’opera e che ci fanno accettare la bizzarra trasposizione che ha ideato la Cucchi. Da un lato l’incanto della gioventù, questo magico periodo della vita in cui tutto sembra possibile e i sogni, di gloria, di successo, di amore, appaiono realizzabili. Un periodo in cui si è piani di certezze e allo stesso tempo di fragilità. E poi c’è l’Amore, questo sentimento misterioso e complicato che qui viene rappresentato soprattutto da Nemorino che con il suo trasporto testardo e incondizionato riesce a conquistare la bella Adina che riconosce nella sua perseveranza un aspetto dell’amore puro e affascinante. E, sebbene Donizetti sappia bilanciare l’elemento buffo con la malinconia penetrante, quello che colpisce in quest’opera è che la risoluzione del conflitto sia, alla fine, affidata al riconoscimento, da parte di Adina, del valore, dell’onestà, della purezza del sentimento di Nemorino di cui a sua volta si innamorerà.
La direzione dell’orchestra, affidata nella serata da me presenziata a Roberto Polastri, è stata puntuale e precisa e in perfetto accordo con quanto succedeva sul palco, grazie anche alla bella interpretazione dell’Orchestra Comunale di Bologna e al meraviglioso e colorato coro formato da una varietà di studenti scatenati e scanzonati.