È difficile parlare di Pirandello senza lasciar cadere il discorso sul tema dell’ipocrisia, della finzione, delle maschere che l’uomo indossa consapevolmente nella società borghese. E non si tratta di una scelta libera e volontaria, ma necessaria per difendersi e sopravvivere. Da questa imposizione nasce l’aspetto grottesco e straniante della condizione dell’uomo che, a furia di mettere e togliere la maschera a seconda delle circostanze, alla fine non sa più quale è la maschera e quale il volto. D’altra parte Pirandello si è limitato a teorizzare un comportamento opportunistico che, a prescindere dalla solfa della “società borghese ricettacolo di tutti i mali”, è nella natura dell’uomo, frutto dell’intelligenza. In questa commedia “L’uomo, la bestia e la virtù” Pirandello legge in chiave grottesca e per certi versi farsesca la storia boccaccesca dell’integerrimo e severo professor Paolino (l’Uomo) amante segreto della virtuosa e morigerata Signora Perella (la Virtù), moglie trascurata di un Capitano di mare sanguigno e fedifrago (la Bestia). Ma la vita degli amanti viene sconvolta dalla notizia della gravidanza della donna e l’imminente ritorno a casa per un brevissimo soggiorno del marito, moltiplica l’angoscia. Occorre dunque occultare le responsabilità e salvare l’onore. Paolino, con l’aiuto di un amico medico, concepisce un piano che, con l’aiuto di potenti afrodisiaci, metta il marito in condizione di congiungersi con la moglie legittimando così la sua gravidanza. Per salvare dunque l’apparenza e la rispettabilità la dolce signora Perella si prostituisce col marito e Paolino mette in sonno l’onestà e la dignità. Ma il suo senso di colpa verrà prontamente rimosso facendo ricadere la responsabilità dell’accaduto sul violento Capitano per aver colpevolmente trascurato la moglie “…che colpa ne ha il viandante che ha mangiato il frutto? La colpa semmai è di chi ha abbandonato la terra e l’albero!”. Alla fine, per il paradossale gioco delle personalità, il professore si trasforma in bestia e il rude e violento Capitano assume tratti più umani. La vita dunque è tutta una falsificazione. L’ipocrisia e l’opportunismo esaltano la doppiezza dell’uomo che, cambiando la maschera (tanto per rimanere in tema) si fa uno, nessuno, centomila.
“L’uomo, la bestia e la virtù” è una farsa tragica in scena al Teatro Manzoni. In una scena spoglia ed essenziale si muovono alla perfezione i bravissimi attori.
Geppy Gleijeses sfoggia una recitazione grottesca al limite della macchietta. Si agita, si dispera, implora, minaccia, si contorce in un servilismo viscido e ributtante, si esibisce in ridicoli smarrimenti, si affida all’iterazione e alla reticenza con effetti di grande comica tragicità. Ottima la prova di Marco Messeri nelle vesti del Capitano, di Marianella Bargilli in quella della moglie, di Vincenzo Leto e Francesco Benedetto e Renata Zamengo che hanno ricoperto con ottimi risultati due parti in commedia.
Il regista Giuseppe Di Pasquale ha privilegiato in modo eccessivo l’aspetto farsesco del testo riducendone la drammaticità anche se non possiamo non applaudire l’impostazione marionettistica della moglie durante “l’ultima cena”. Un suggerimento, il figlio è giusto che sia petulante e rompiscatole ma… con judicio.