Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nel mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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HEART OF THE SEA – Le origini di Moby Dick
Genere: avventura
Regia: Ron Howard
Cast: Chris Hemsworth, Benjamin Walker, Cillian Murphy, Ben Whishaw, Tom Holland, Brendan Gleeson, Jordi Mollà, Frank Dillane, Charlotte Riley, Paul Anderson
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: non è l’ennesima versione cinematografica di Moby Dick, il capolavoro che ha affascinato molte generazioni da quando Melville lo ha scrittto nel 1851, ma la ricostruzione dei fatti realmente accaduti che lo ispirarono. Per le sue opere il pluripremiato e premio Oscar Ron Howard ama spesso ispirarsi a eventi reali – come per Apollo 13 (le missioni spaziali), Il duello (il grande giornalismo dell’intervista televisiva di Frost a Nixon che ha ispirato anche un’emozionante pièce teatrale) o il più recente Rush (la formula 1) – ha proposto in modo intelligente quanto accaduto nel 1820 alla baleniera Essex, evitando di limitarsi alla trasposizione filmica del libro Nel cuore dell’oceano – La vera storia della baleniera Essex di Nathaniel Philbrich (edito da Garzanti). Un’intuizione del regista è stata inserire la vicenda nella cornice di un’intervista (immaginaria) fatta nel 1850 da un reporter (Melville) al marinaio Thomas Nickerson (ultimo superstite dell’equipaggio della baleniera) che si era sempre rifiutato di raccontare quanto era avvenuto. L’episodio è ovviamente lo stesso all’origine di Moby Dick e Melville, che era stato baleniere sulla nave Acushnet, probabilmente lo aveva appreso dalla tradizione marinara, ma il suo romanzo è il racconto della caccia ossessiva del capitano Achab a un mostro quasi espressione biblica del male, mentre il film di Howard è incentrato sulla lotta di un gruppo di uomini per sopravvivere. Condotto dal filo dell’intervista, lo spettatore segue gli eventi da quando nel 1819 la Essex salpa dal porto dell’isola di Nantucket diretta verso l’oceano Pacifico per procurarsi attraverso la caccia olio di balena sufficiente a riempire duemila barili. È comandata dal capitano Pollard inesperto e arrogante (come tutti quelli che nascondono ignoranza e incapacità dietro la presunzione) che aveva ottenuto l’incarico solo per essere un rampollo di buona famiglia (il mondo in definitiva è sempre uguale, in ogni latitudine), mentre l’uomo esperto di mare era l’ufficiale Owen Chase che quindi riteneva di essere vittima di un’ingiustizia. Ovviamente tra i due si stabilisce un’atmosfera conflittuale che vanamente cerca di comporre, o almeno mediare, l’altro ufficiale Matthew Joy. Howard ritrae Chase come un uomo nobile, eroico e carismatico che resterà profondamente segnato dalla vicenda: sarà infatti perseguitato dal senso di colpa di non aver saputo evitare la sciagura, sentimento che con il tempo diviene l’ossessione di volersi vendicare della balena (come il capitano Achab, figura probabilmente ispirata da Chase). Anche se allora i mari erano molto più popolati, non era facile trovare le prede e i viaggi delle baleniere duravano anche più di uno/due anni: così accadde anche per la Essex che per lungo tempo vagò alla ricerca dei cetacei con pochi risultati, poi la fortuna mutò e lo scopo della missione sembrava raggiunto quando, inattesa, arrivò la tragedia. Una gigantesca balena (80 tonnellate, 29 metri di lunghezza e 6 metri di pinna) aggredisce – le cronache del tempo sostengono che non era mai accaduto – la baleniera: la lotta è impari e la nave squarciata affonda. Una ventina di marinai si salva su tre scialuppe: vagheranno alla deriva per circa 90 giorni e per sopravvivere alla mancanza di cibo dovranno piegarsi a compire episodi di cannibalismo sui compagni morti. Heart of the Sea è un film epico che vuol indagare sui limiti fisici e psicologici di uomini che devono lottare per sopravvivere contro le forze avverse della natura (in questo caso il mare) e la disperazione che inevitabilmente assale quando si vaga senza nessuna prospettiva di luogo e di tempo, salvo quella di soccombere. Il film è severo e contiene scene impressionanti e ad alta tensione come quelle del suo nucleo drammatico: l’attacco del cetaceo prima alla baleniera e poi alle scialuppe. Eccezionale la fotografia di Anthony Dod Mantle: sembra di sfogliare un album di stampe ottocentesche.
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MON ROI
Genere: commedia
Regia: Maïwenn
Cast: Vincent Cassel, Emanuelle Bercot, Louis Garrel, Isild Le Besco
Origine: Francia
Anno: 2015
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: in un’intervista Maïwenn Le Besco ha raccontato che il bel titolo del film, Mon Roi, le è stato suggerito dal ricordo di una canzone di Elli Medeiros, ma al di là delle suggestioni musicali fotografa lo stato di fatto di ogni coppia, almeno finché esistono sentimenti che la rendono tale: per ognuno dei due l’altro è il Re (o la Regina) a seconda dei casi. Il problema semmai è il tipo di legame psicologico esistente nella coppia a caricare di valenze non corrette l’espressione ‘Mio Re’ (o Regina). Nel film di Maïwenn (in concorso al Festival di Cannes 2015 e vincitore con Emanuelle Bercot della ‘Palma d’oro’ per la migliore interpretazione femminile, pari merito con Rooney Mara di Carol) tra George (il Re) e Tony il rapporto è di sudditanza. Tony – è assai lontana dalla bellezza delle ragazze che normalmente circondano George ed è interiormente angosciata – ha il terrore (“Non ho aspettato tutti questi anni per avere un bambino e andarmene” dice al fratello che le suggeriva di chiudere il rapporto) di perdere quest’uomo bello, vitale, allegro, intelligente e pieno di sorprese (anche sgradevoli) agli antipodi della sua famiglia perbenista e noiosa. George (un travolgente e fascinoso Vincent Cassel) personaggio complesso e dalle mille sfaccettature, padre affettuoso, proprietario di ristoranti e avventuriero passa dalla ricchezza al pignoramento dei mobili della casa ed è l’opposto per esempio del monocorde fratello di Tony il quale con il passare degli anni lo sopporta sempre meno. La vicenda è raccontata attraverso continui flashback che scandiscono l’analisi che Tony fa di sé stessa e della sua turbolenta passione per George durante un forzato periodo di riposo dovuto a un grave incidente sugli sci. Costretta a vivere all’interno di una struttura di riabilitazione, la donna tra un esercizio e l’altro di fisioterapia, non più condizionata dal ritmo di una vita intensa tra l’attività di avvocato, l’educazione del figlio, la conduzione della casa e i rapporti sociali, può ripensare con calma a questo suo amore (il più grande della sua vita) e a come sia nato, come si sia sviluppato e degenerato e come (forse) sia finito. La visione dell’amore che la regista trasmette è pessimistica: quello di Tony non è certo una sublimazione dell’essere, ma è piuttosto una malattia difficilmente superabile (al contrario della frattura del ginocchio) o una ‘droga’ da cui è quasi impossibile disintossicarsi. Tony dall’incontro con un gruppo di giovani (come lei in fisioterapia) espressione di un mondo semplice e allegro, ben diverso da quello da lei frequentato, compie anche un percorso di recupero psicologico e forse trae la forza per trovare un diverso tipo di affetto per George. Mon Roi non è certo all’altezza del bellissimo Polisse con cui nel 2011 Maïwenn ha vinto il Premio della giuria al Festival di Cannes, ma ha una prima parte coinvolgente in cui racconta in modo convincente il complesso rapporto tra la borghese Tony e il fedifrago, affascinante ed egoista George, per poi perdere smalto nel descrivere gli aspetti sostanzialmente ripetitivi nel dipanarsi degli anni. Le situazioni descritte – anche nella loro ripetitività incomprensibile a un osservatore esterno – sono però di normale quotidianità (a volte approdano anche alle cronache giornalistiche) e in quest’ottica il film offre occasione di riflessioni.
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11 DONNE A PARIGI
Genere: commedia
Regia: Audrey Dana
Cast: Isabelle Adjani, Alice Belaïdi, Laetitia Casta, Audrey Dana, Julie Ferrier, Audrey Fleurot, Marina Hands, Géraldine Nakache, Vanessa Paradis, Alice Taglioni, Sylvie Testud
Origine: Francia
Anno: 2014
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: un cast d’eccezione con alcune delle star francesi più amate dal pubblico per la regia d’esordio di Audrey Dana (è una delle undici protagoniste) attrice che ha recitato con alcuni dei più importanti registi d’Oltralpe. 11 donne a Parigi – contrariamente alle commedie molto raffinate che generalmente approdano sui nostri schermi – tende a giocare sui doppi sensi (a cominciare dal titolo originale Sous les jupes des filles) e su gag volgarotte che ricordano certi pruriginosi filmetti italiani di qualche anno fa. Le protagoniste sono un gruppo di amiche giovani e meno giovani, sposate, single, professioniste realizzate sul lavoro o alla ricerca di un’attività, ma tutte alle prese con problemi sentimentali, sessuali, familiari… Nelle aspirazioni della regista il film avrebbe dovuto offrire una panoramica rappresentativa, divertente, liberatoria e un po’ trasgressiva del mondo femminile, ma ha finito per impantanarsi in una serie di stereotipi o di caricature con situazioni al limite del paradosso. Degli uomini che appaiono non se ne salva uno: meglio perderli che trovarli…
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LA ISLA MINIMA
Genere: thriller
Regia: Alberto Rodriguez
Cast: Raúl Arévaío, Javier Gutiérrez, Antonio de la Torre, Nerea Barros, Salva Reina, Jesús Castro, Manolo Solo
Origine: 2014
Anno: Spagna
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: Alberto Rodriguez, quarantenne regista spagnolo al suo quarto lungometraggio, con La isla minima ha fatto l’en plein di premi Goya (corrisponde all’italiano David Donatello) collezionandone dieci tra cui miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. Ambientato in Andalusia in un piccolo villaggio del paludoso estuario del Guadalquivir, uno di quei posti in cui il tempo sembra essersi fermato e l’atmosfera cupa e desolata richiama antiche suggestioni di occulto e riti satanici, La isla minima è un ottimo noir che rivela nel regista mano ferma, idee chiare e senso dell’equilibrio nel seminare indizi e spiegazioni non anticipando però nulla per tenere intatta la suspense. La vicenda si svolge all’inizio degli anni ottanta quando la Spagna aveva da poco riconquistato la democrazia che peraltro era ancora debole e vulnerabile per l’opposizione ora violenta ora strisciante e subdola del franchismo sconfitto e per la sospettosa indifferenza di chi temeva l’evolversi dello statu quo conosciuto verso nuovi equilibri sconosciuti. Lo spettatore può divertirsi a tentare una lettura in tale chiave dei personaggi e degli accadimenti del film, o limitarsi a godere un’opera di grande professionalità, dal robusto impianto narrativo e di notevole suspense. Durante l’annuale festa del paese due giovani sorelle spariscono senza lasciar traccia alcuna. Risultate vane le ricerche più o meno superficiali, la madre delle ragazze fa pressione per un’indagine più seria e approfondita rompendo la tradizione di acquiescenza e indifferenza che si era verificata nelle precedenti scomparse. Giungono da Madrid due detective (Juan e Pedro, rispettivamente gli ottimi Javier Gutiérrez e Raúl Arévaío) antipodali per carattere, metodi e stile, ma entrambi grandi esperti in sparizioni e omicidi. Pochi giorni dopo il loro arrivo i corpi delle due ragazze, violentate e orrendamente seviziate, sono ritrovati. Le indagini dei due poliziotti ben presto però s’impantanano in una rete di intrighi e nella generale indifferenza se non ostilità della popolazione che preferisce ignorare la verità piuttosto che scoprire realtà scomode e che possono sconvolgere il consolidato statu quo…
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QUEL FANTASTICO PEGGIOR ANNO DELLA MIA VITA
Genere: commedia drammatica
Regia: Alfonso Gomez-Rejon
Cast: Thomas Mann, RJ Cyler, Olivia Cooke
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: vincere nello stesso festival sia il premio della giuria sia quello del pubblico è un evento più unico che raro: è successo a Quel fantastico peggior anno della mia vita al Sundance Film Festival e la sua visione conferma la straordinaria convergenza di giudizi. Gomez-Rejon ha realizzato un’opera che si distingue per l’equilibrio e la serena ironia con cui tratta la melanconica vicenda della giovane Rachel (ottima e spontanea Olivia Cooke così come Thomas Mann dal mesto umorismo e RJ Cyler rispettivamente Greg ed Earl) cui è stata diagnosticata una grave forma di leucemia. La storia è raccontata dal punto di vista di Greg, un giovane di Pittsburgh giunto all’ultimo anno del liceo, che per sopravvivere agli anni della scuola (di cui non ama l’atmosfera) si è dato una filosofia precisa: evitare rapporti profondi e quindi non fare amicizia con nessuno tanto da considerare e definire Earl – il coetaneo, come lui appassionato di cinema, con cui realizza amatoriali parodie dei grandi classici da lui amati – collega e non amico. Una filosofia che è un’autodifesa volta a proteggere, dietro un apparente cinismo, un cuore grande e fragile. Tutto funziona fino a quando la madre non lo obbliga a frequentare Rachel, una coetanea cui è stata diagnosticata la leucemia mieloide acuta. Nasce così un rapporto che, inizialmente subìto dai due ragazzi, si trasforma lentamente in una ruvida ma profonda amicizia che dà momenti di gioia e spensieratezza a Rachel e aiuta Greg a maturare facendolo uscire dalla torre di egoismo in cui per paura di affrontare la vita si era rinchiuso e a superare il temuto confine tra adolescenza ed età adulta. Tema – tratto da un romanzo per giovani di Jesse Andrews edito in Italia da Einaudi con lo stesso enigmatico e un po’ stupido titolo del film (quanto più bello il titolo originale Me and Earl and the Dying Girl!) – ideale per realizzare un’opera strappalacrime: invece Gomez-Rejon al suo secondo lungometraggio (American Horror Story il primo) ha compiuto un miracolo di equilibrio tra umorismo (irresistibili alcune battute) e commozione e riesce a passare con delicatezza dal tono leggero iniziale all’atmosfera drammatica del finale che raggiunge una punta di melanconica commozione con quell’autentico ‘gioiello’ del Corto per Rachel. Un film notevole e delizioso.
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REGRESSION
Genere: horror thriller
Regia: Alejandro Amenábar
Cast: Emma Watson, Ethan Hawke, David Thewlis, Devon Bostick, Dale Dickei
Origine: Spagna
Anno: 2015
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: durante la presentazione del suo film al Festival di San Sebastian, il regista l’ha definito “una pellicola sulla paura, sugli errori e sul diavolo che è in tutte le persone”. Ispirata a fatti di cronaca, la vicenda è ambientata nel 1990 in una cittadina del Minnesota: la diciassettenne Angela Gray (Emma Watson al suo primo ruolo ‘adulto’ dopo la serie di Harry Potter) accusa John, suo padre, di avere abusato di lei. Questi prima nega risolutamente sostenendo di non ricordare nulla, poi improvvisamente e senza alcun motivo apparente confessa il crimine all’investigatore Bruce Kenner (Ethan Hawke). La dinamica della confessione fa sorgere in Kenner dubbi e l’esigenza di approfondire la difficile inchiesta per cui affida John a un noto psicologo/ipnotista per farne emergere i ricordi, ma ciò che la terapia regressiva porta alla luce è sorprendente e terribile coinvolgendo in pratiche sataniche l’intero paese. Amenábar mette in campo molte problematiche (forse troppe) anche interessanti e coinvolgenti come la paura che si diffonde come un virus, la comunità che ama creare e cercare mostri da ‘sbattere in prima pagina’, il problema delle sette sataniche presenti negli Stati Uniti o gli effetti e l’utilità delle psicoterapie per scavare nei ricordi. La regia eccede, però, nel gioco (in cui peraltro Amenábar è abilissimo come mostrano le opere precedenti) di spargere falsi indizi per depistare lo spettatore e nel passare dall’atmosfera iniziale di film dell’orrore a quella del thriller psicologico e poi del dramma, finendo per ottenere l’esito opposto a quello desiderato: una progressiva caduta di tensione.
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CHIAMATEMI FRANCESCO – Il Papa della gente
Genere: biografico
Regia: Daniele Luchetti
Cast: Rodrigo De la Serna, Sergio Hernández, Muriel Santa Ana, Josè Ángel Egido, Mercedes Moran, Alex Brendemühl, Pompeyo Audivert, Paula Baldini
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: nel realizzare un film su un leader vivente, specialmente se è il Papa, si corre il rischio dell’agiografia in questo caso religiosa o, viceversa, di cercare a tutti i costi gli aspetti critici e oscuri dell’avventura umana del protagonista. Daniele Luchetti – al secondo film su personalità viventi (il primo è stato nel 1998 I piccoli maestri sull’esperienza partigiana di Luigi Meneghello) – regista e sceneggiatore del film e il produttore e autore del soggetto Pietro Valsecchi (cui si devono due opere dedicate a Papa Wojtyla e miniserie televisive su personaggi della storia e della cronaca) sono riusciti, invece, a evitare entrambi i pericoli. Chiamatemi Francesco racconta Jorge Mario Bergoglio da quando a Buenos Aires è uno spensierato studente, allegro, simpatizzante peronista perché il movimento stava dalla parte del popolo, fidanzato con una graziosa compagna e con molti amici fino al momento in cui nel cielo di Roma si alza la bianca fumata che ne annunzia l’elezione a Papa (13 marzo 2013) aprendo una nuova fase nella millenaria storia della Chiesa. Il film si sofferma soprattutto sui primi decenni di attività da quando intorno ai vent’anni questo figlio di immigrati piemontesi decide di seguire la vocazione missionaria che sentiva prepotentemente crescere in sé ed entra nell’ordine dei Gesuiti (il più formativo e rigoroso, ma anche il più intellettualmente aperto al divenire del mondo). L’aspirazione del giovane Bergoglio è di essere inviato come missionario in Giappone dove i cattolici già non numerosi erano in calo: non andrà mai a fare il pastore di anime in quel paese, ma la fede incrollabile e il grande amore per il prossimo lo porteranno a doversi far carico dell’umanità tutta e del suo futuro indipendentemente della religione d’appartenenza. Nessuno più di questo (per molti) sconosciuto Pastore “venuto dalla fine del mondo” (come si presentò alla folla la sera della sua elezione) era adatto a guidare la Chiesa in un’epoca difficile e tormentata come l’attuale. Bergoglio, infatti, si è trovato a operare in un ruolo di responsabilità negli anni terribili della dittatura di Videla (1976-1983) in cui come Padre Provinciale dei Gesuiti per l’Argentina seguendo la politica senza velleitarismi di “fare quel che si può fare” si è impegnato in prima persona nella difesa e nella protezione dei perseguitati dal regime, dovendosi anche guardare da alcuni confratelli. Il regista evidenzia come solo una fede incrollabile gli abbia permesso di superare il dolore della perdita di confratelli come Yorio e Jalics sospettati di aver abbracciato la ‘teologia della liberazione’, posizioni invise ai vertici della Chiesa argentina acquiescenti nei confronti del dittatore e per i quali i Superiori dell’Ordine avevano decretato di fatto l’espulsione se continuavano la loro attività a fianco dei diseredati o ancora la scomparsa di Ester Ballestrino, la sua professoressa di chimica, militante comunista e tra le protagoniste delle ‘Madri di piazza de Majo’ barbaramente uccisa dal regime. Luchetti, forse perché non credente come ha dichiarato, evitando il pericolo di fare un ‘santino’ ha descritto una persona coraggiosa che ha affrontato con grande responsabilità ed equilibrio situazioni pericolose e che ha anche pagato con un esilio di fatto nelle favelas degli emarginati (da cui peraltro la sua azione pastorale ha tratto ancora maggior forza e umanità) le sue idee e azioni invise alla Chiesa argentina salvo poi da questa essere richiamato nel momento in cui la crisi economica ha portato il Paese nel barato e il popolo alla disperazione. Anche in questo caso Bergoglio è stato con forza e umiltà al servizio dei poveri, degli umili e degli emarginati contro ingiustizie e prevaricazioni del potere politico ed economico (bello l’episodio in cui ‘obbliga’ il Vescovo ad andare in mezzo ai poveri). Chiamatemi Francesco è un film interessante – anche perché ricorda (o fa conoscere) drammatiche pagine della storia di un Paese così vicino a noi – coinvolgente e toccante, ottimamente interpretato da tutto il cast su cui emerge Rodrigo De la Serna (Bertoglio giovane). Forse ha un difetto: una mezz’ora in più avrebbe consentito maggiori approfondimenti che certamente potranno essere visti nella versione televisiva (quattro ore circa in due puntate).
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UN POSTO SICURO
Genere: drammatico
Regia: Francesco Ghiaccio
Cast: Marco D’Amore, Giorgio Colangeli, Matilde Gioli
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: ottimo esordio di Francesco Ghiaccio nel lungometraggio con un film bello – non solo sotto l’aspetto formale – che tratta una pagina di quella storia minore che nel nostro Paese (come peraltro in tutti gli altri) si perde dopo un momento, a volte solo formale, di emozione collettiva senza lasciare traccia nei libri di storia, spesso mero elenco di fatti e dati disgiunti dalla quotidianità della vita delle popolazioni. La vicenda raccontata (tratta da un soggetto dello stesso Ghiaccio e di Marco D’Amore, anche sceneggiatori) si svolge a Casale Monferrato, graziosa cittadina del Piemonte, in cui l’Eternit – la fabbrica che dal 1907 era stata considerata una fonte di ricchezza e lavoro (nel decennio 1950-1960 superò i 2.500 dipendenti) – si è rivelata una fonte di morte: “La più grande tragedia del lavoro mai avvenuta in Italia” citando Saviano, con a oggi oltre 2.000 morti solo a Casale e più di 3.000 considerando gli altri tre stabilimenti italiani. E non è finita perché si calcola che la punta massima di decessi annuali sarà nel 2020. Un posto sicuro è la storia di un figlio (Luca, l’ottimo Marco D’Amore), di un padre (Edoardo interpretato con grande sensibilità da Giorgio Colangeli), di una comunità e del loro rapporto con ‘la fabbrica’: “era considerato un privilegio lavorarci, e noi ci sentivamo fieri” dice Edoardo in un monologo che è il momento chiave per capire il rapporto viscerale che spesso lega gli operai alla fabbrica che dà loro molto più del salario poiché dà dignità di vita e a volte l’orgoglio sociale di far parte di un’élite. Lo spettatore che poco conosce (se non è vissuto negli anni ottanta del Novecento quando dopo lunghe vicende fu chiuso lo stabilimento di Casale, il più grande d’Europa) prende coscienza, parallelamente a Luca, della trasformazione dell’amianto da portatore di vita a fonte di morte. Le fibre di silicato che lo compongono, anche se ridotte in dimensioni microscopiche, conservano, infatti, la forma di micro-aghi e raggiungendo in profondità le vie respiratorie possono provocare dalla fibrosi polmonare (asbestosi riconosciuta come malattia professionale dal 1943) fino a varie forme tumorali di cui la più grave è il mesotelioma (colpisce prevalentemente la pleura ed è maligno) la cui connessione con l’amianto e l’Eternit risale alla fine degli anni settanta del secolo scorso. I fatti hanno inoltre tragicamente dimostrato che il rischio si estendeva anche ai famigliari, per esempio quando pulivano le tute. Padre e figlio pur vivendo nella stessa cittadina da anni non hanno rapporti perché Edoardo rimprovera al figlio di non credere in se stesso avendo rinunciato a fare l’attore e accontentandosi di vivere facendo il guitto nelle feste, Luca rinfaccia al padre di aver trascurato la famiglia per la fabbrica. Il precipitare dello stato di salute di Edoardo li costringe a rincontrarsi e dopo un inizio burrascoso entrambi si rendono conto che non possono mancare quest’ultima occasione e durante una specie di ‘pellegrinaggio laico’ ai luoghi della fabbrica Luca ne capisce ruolo e importanza nella vita del padre e dei molti come lui. Lo spettatore, invece, si chiede se sia giusto che chi lavora sia costretto a scegliere tra mettere a rischio la vita e l’ambiente o non rischiare la vita, ma rinunciare al lavoro e a poter mantenere la famiglia o formarsene una, quando sarebbe sufficiente che l’impresa rinunciasse a una parte di profitti per mettere in sicurezza il personale (per esempio le recenti problematiche di Taranto). Per questo lascia un senso di amarezza la sentenza della Cassazione (citata come finale del film) che ha annullato la condanna dei proprietari dell’Eternit avvenuta in Assise e in Appello, non perché i delitti (dall’omicidio colposo al disastro ambientale) non fossero stati commessi, ma perché li ha giudicati prescritti. In democrazia le sentenze della Magistratura si accettano, ma non ci si può non chiedere perché migliaia di morti (e le relative famiglie) causati dai mancati investimenti nella sicurezza dei luoghi di lavoro non debbano godere della giustizia umana. Ghiaccio ha realizzato un ottimo lavoro – molto documentato, ma non un documentario o un film didascalico – raggiungendo effetti potenti, emozionanti e commoventi.
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KRAMPUS – NATALE NON È SEMPRE NATALE
Genere: horror
Regia: Michael Dougherty
Cast: Allison Tolman, Emjay Anthony
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 3 dicembre 2015
Il film: Quando i genitori con il loro egoismo rovinano la famiglia, la vita propria e ancor peggio quella dei figli. È il caso di Max, un ragazzino che a causa delle risse familiari ha un profondo (e motivato) rifiuto dei propri consanguinei e lo concretizza nel non voler più credere nel Natale e soprattutto in quei suoi valori che al di là delle parole vede disattesi quotidianamente. Il suo atteggiamento provoca l’interessamento di Krampus che non è un buon samaritano, ma un’entità perversa. La situazione precipita e ragazzino e famiglia si trovano in balia della furia demoniaca dell’essere malvagio. L’antidoto è una radicale modifica delle cause che hanno determinato lo scatenarsi del demone. Riusciranno Max e famiglia a capire che per uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciati dovranno mutare i propri atteggiamenti e iniziare ad aiutarsi reciprocamente superando incomprensioni, diffidenze e rancori? E soprattutto riusciranno a mettere in pratica con animo sincero gli eventuali buoni propositi? Un horror natalizio meno lontano da tante realtà di quanto si possa pensare e che per questo dovrebbe invitare a riflettere sul valore della convivenza e sul vero significato del Natale.
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IL PROFESSOR CENERENTOLO
Genere: commedia
Regia: Leonardo Pieraccioni
Cast: Leonardo Pieraccioni, Laura Chiatti, Massimo Ceccherini, Flavio Insinna, Sergio Friscia, Davide Marotta, Nicola Acunzo, Lorena Cesarini, Manuela Zero, Emanuela Aurizi, Lucianna De Falco, Lisa Ruth Andreozzi, Sabrina Paravicini, Nicola Nocella, Lorenzo Renzi,Guido Genovesi
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 7 dicembre 2015
Il film: Simpatica e divertente commedia che delizia lo spettatore con un personaggio un po’ diverso da quelli solitamente interpretati dal comico toscano: Umberto (il protagonista) non è, infatti, l’eroe con la testa tra le nuvole che tante volte ha divertito il pubblico, ma un uomo un po’ ruvido e cialtrone che tenta di trarre senza troppi scrupoli vantaggi personali da qualsiasi situazione. Pieraccioni disegnando la figura di Umberto ha centrato le caratteristiche di moltissimi Italiani qualsiasi sia la formazione culturale, lo status sociale o l’attività svolta. L’incipit paradossale prende le mosse da un problema reale (per la cui soluzione non sono sufficienti gli annunci verbali) e pesante del nostro sistema Paese: il tragico ritardo con cui la Pubblica Amministrazione paga i fornitori, spesso ponendoli in gravi difficoltà poiché i crediti non entrano per esempio nelle buste paga. L’ingegner Umberto, titolare di un’azienda edile, portato sull’orlo del fallimento dalla difficoltà a riscuotere questi crediti, pensa di risolvere la situazione svaligiando una banca con lo stile dei soliti ignoti, ma essendo facilone – e non considerando che il reale spessore dei muri divisori è diverso da quello che avrebbe dovuto essere – combina un disastro e viene catturato dalla polizia, anche a mani vuote. Ritroviamo il nostro Umberto nell’affascinante Ventotene (la fotografia valorizza splendidi scorci dell’isola e il paese che sembra uscito da un presepe) dove sta per terminare il periodo di reclusione e ha ottenuto il beneficio di un lavoro esterno al carcere (nella biblioteca comunale, origine del soprannome ‘il professore’ con cui è conosciuto nell’isola), ma ogni sera a ora fissa, proprio come Cenerentola, deve rientrare a ‘casa’. Pieraccioni ha arricchito il racconto con una serie di simpatiche macchiette e di esilaranti colpi di scena (è divertente scoprirli) coadiuvato da un ottimo cast tra cui spiccano per simpatia Davide Marotta che interpreta Arnaldo (vittima dei soprusi del Professore, ma avrà la sua rivincita) e Sergio Friscia, inattendibile boss siciliano. Un capitolo a parte è Laura Chiatti che illumina il film con la solare bellezza e la bravura con cui rende credibile la svampita e infantile Morgana. Il Professor Cenerentolo (giustamente premiato dall’affluenza del pubblico) è un film piacevole, mai banale, per fuggire per un paio d’ore da problemi e pesantezze quotidiane.
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BELLE & SEBASTIEN – L’avventura continua
Genere: avventura
Regia: Christian Duguay
Cast: Félix Bossuet, Thierry Neuvic, Tchéky Karyo, Margaux Châtelier, Thylane Blondeau, Urbain Cancelier, Joseph Malerba, Ludi Boeken, Jeffrey Noël, Fred Epaud e con Garfield, Fort e Fripon nella parte di Belle
Origine: Francia
Anno: 2015
In sala dall’8 dicembre 2015
Il film: è il secondo lungometraggio tratto dall’omonimo racconto per ragazzi scritto negli anni sessanta dall’attrice Cécile Aubry e tradotto una ventina d’anni dopo in una serie animata giapponese (trasmessa anche da una rete televisiva italiana) divenuta un cult. Il primo film – con la regia dello scrittore Nicolas Vanier e dal successo inatteso sia in Francia, sia in Italia – era centrato sul nascere dell’amicizia tra il piccolo Sébastien, orfano solitario e un po’ selvaggio, e Belle, bianco cane da montagna dei Pirenei. Amicizia ostacolata dagli abitanti del villaggio che ritenevano quel cane così selvatico un pericolo per le greggi. In questo secondo capitolo (sembra siano in cantiere una terza puntata e una nuova serie animata per la televisione), Sébastien ha ormai dieci anni e va a scuola alla quale peraltro preferisce le gare con Belle scivolando con uno slittino sulla neve. Le vicende sono nuovamente ambientate tra le splendide montagne dell’Haute Maurienne Vanoise (è a due passi dall’Italia, è una regione favolosa in ogni stagione e non solo per una natura ancora rispettata dall’uomo: è un peccato non recarvisi) e nel dipartimento dell’Ain del Rodano-Alpi e si svolgono nel 1945, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Il cast è quello del primo film con la new entry di Thierry Neuvic nel nuovo e centrale personaggio di Pierre mentre la regia è stata affidata al canadese Christian Duguay, esperto nel dirigere film con animali ed è stato coinvolto l’addestratore Andrew Simpson (la loro magistrale mano si nota nell’incontro/scontro tra Belle e l’orso: sequenze veramente emozionanti). Sébastien (nuovamente interpretato da Félix Bossuet, visto di recente anche in Mon Roi in cui era Simbad, il figlio di George e Tony) e Belle attendono con impazienza, assieme a tutto il paese, il ritorno dell’amica Angelina (Margaux Chatelier) dalla guerra cui aveva partecipato nelle file della Resistenza distinguendosi per il coraggio tanto da essere decorata con una medaglia al valore. L’attesa risulta vana perché l’aereo precipita nella foresta che ricopre le montagne. Al termine di ricerche infruttuose le Autorità dichiarano che purtroppo non vi sono superstiti. Verdetto non accettato da Sébastien e da nonno César (Tchéky Karyo) i quali lo ritengono frettoloso, per cui César ingaggia Pierre – un avventuriero da lui disprezzato per varie vicende, ma che possiede un piccolo aereo ed è un abile pilota – incaricandolo di una ricognizione alla ricerca di segni di vita. Sébastien, César e Belle si mettono in marcia verso la montagna: è per il ragazzo un viaggio iniziatico in cui supererà prove di coraggio e responsabilità e in qualche modo sarà costretto a ripercorrere la sua vita e a cancellare pregiudizi. Anche per lo scorbutico Pierre è, però, un viaggio pieno di sorprese e… imparerà ad amare i cani. La regia di Duguay inanella scene spettacolari (avvalendosi poco del computer grafica) peraltro privilegiando sempre i rapporti umani senza mai sacrificare la caratteristica dell’opera della Aubry di essere un romanzo di formazione: vediamo quindi nei pochi giorni in cui si svolgono le vicende Sébastien maturare e aprirsi nei rapporti con gli altri e in particolare con Pierre e con Gabriele, una ragazza più anziana, ma ancora più scavezzacollo di lui. Questo secondo episodio – che certamente non delude chi ha amato il film precedente e incrementa il numero dei fan di Belle e Sébastien – rivela in Félix Bossuet notevoli doti non solo di simpatia, ma anche di recitazione: nei numerosi dialoghi con Pierre contende a Thierry Neuvic la palma del più bravo. Belle & Sébastien-L’avventura continua è un film sereno, avvincente e ricco di valori formativi non solo per i più piccoli. Infine una segnalazione ‘a latere’: fino al 31 marzo 2016 sarà possibile vincere un biglietto-omaggio per andare al cinema partecipando al concorso “Royal Canin ti porta al cinema”: per sapere ulteriori dettagli occorre collegarsi a www.royalcanin.it/cinema
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PERFECT DAY
Genere: commedia drammatica
Regia: Fernando León de Aranoa
Cast: Benicio Del Toro, Tim Robbins, Olga Kurylenko, Mélanie Thierry, Fedja Stukan, Eldar Residovic, Sergi López
Origine: Spagna
Anno: 2015
In sala dal 10 dicembre 2015
Il film: difficile definire Perfect day se non semplicemente come un gran bel film, perfetto mix di molti generi. Al suo sesto lungometraggio (primo in lingua inglese), León de Aranoa (regista spagnolo che fin dal suo esordio ha raccolto un gran numero di Goya, premio corrispondente al David di Donatello italiano) ha realizzato un’opera dai dialoghi frizzanti, intrisi d’ironia e in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, serietà e leggerezza. Proprio per questa sua levità è una durissima condanna dell’insensatezza della guerra e dell’imbecillità umana, denuncia resa più forte dal non sentirsi sparare un solo colpo, ma se ne vedono effetti e conseguenze anche sui ragazzi e sui bambini e se ne percepisce l’atmosfera. Il film è ambientato in Bosnia nel 1995: sono stati appena firmati gli accordi di pace di Dayton, ma – come spesso accade nelle guerre, specialmente se civili e con matrice razziale e religiosa in cui l’insensatezza regna sovrana e vicini di casa (un tempo amici) si scannano senza esitazione o pietà – tardano a essere applicati sul campo. Una squadra di operatori umanitari guidata da Mambrú (un eccezionale Benicio Del Toro che riesce a essere spavaldo e umano, cinico e dolce) è inviata in un villaggio in mezzo alle montagne a estrarre un grosso cadavere umano dall’unico pozzo d’acqua potabile della zona. L’operazione deve avvenire entro 24 ore per evitare che l’acqua divenga pericolosamente infetta. Sembra facile, ma la corda si spezza, forse manomessa dagli stessi che hanno gettato il cadavere nel pozzo per inquinarne l’acqua o come atto bellico (avveniva molto spesso nelle zone aride della Bosnia) o come atto banditesco da parte di chi poi sarebbe arrivato con autobotti a vendere a caro prezzo l’acqua potabile. Il problema è trovare un’altra corda in un paese in cui le corde sono divenute rarissime (l’impiccagione del nemico era molto frequente). Il film apparentemente è la ricerca della corda – su cui s’innesta quella di un pallone per un bambino (rimasto solo con il nonno e preso da Mambrú sotto la sua protezione) la cui vicenda è un’amara e commovente denuncia delle distorsioni causate dal conflitto sui più piccoli – in realtà è, oltre alla denuncia dell’assurdità e irrazionalità di ogni guerra, una panoramica obiettiva e disincantata sulle forze internazionali che nei vari conflitti si muovono per interporsi tra i belligeranti e per alleviare le sofferenze della popolazione (León de Aranoa ha maturato notevoli esperienze e conoscenza delle problematiche avendo girato documentari sull’operato delle forze umanitarie in vari conflitti). Se i caschi blu dell’Onu appaiono ottusi esecutori di direttive stabilite da burocrati lontani dai problemi quotidiani della popolazione (purtroppo le cronache hanno denunciato alcuni casi ben peggiori dell’ottusità burocratica), neppure i partecipanti alle organizzazioni umanitarie sono risparmiati. Eroi sempre, umani nella generosità come nelle debolezze, che rientrano secondo l’esperienza del regista in tre categorie, tutte esemplificate nel film: gli idealisti che vogliono salvare il mondo (la neoarrivata Sophie esperta di purificazione delle acque), chi passa da una guerra all’altra non potendo ormai fare nient’altro (il veterano e scanzonato B da tanto tempo in giro per guerre che quasi non si ricorda più da dove viene) e gli operatori professionisti (Mambrú). La squadra di Mambrú si muove tra indifferenza e forze ostili di varia natura come una pallina del flipper in un territorio segnato da un labirinto di strade di montagna tutte eguali: bellissima l’inquadratura dall’alto dei due suv neri della squadra che corrono in quel labirinto bianco senza una meta visibile, quasi immagine dell’irrazionalità della guerra, ma anche di un’umanità che spesso agisce per agire. Perfect day si avvale di una recitazione notevole da parte di tutto il cast: accanto all’eccezionale Benicio Del Toro raggiungono un ottimo livello anche Tim Robbins (l’incontenibile B), Mélanie Thierry (una più che convincente Sophie) e Olga Kurylenko (che ha arricchito il personaggio di Katya con moltissime sfumature). La sceneggiatura è tratta dal romanzo Dejarse Llover di Paula Farías – medico emergency coordinator per MSF la quale da anni vive queste problematiche in prima linea – di cui il regista aveva avuto notizia in Uganda mentre girava un documentario con i volontari di Medici Senza Frontiere.
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LEONE NEL BASILICO
Genere: commedia
Regia: Leone Pompucci
Cast: Ida di Benedetto, Alessia e Ilaria Santacroce, Carla Signoris, Catrinel Marlon, Augusto Fornari, Mariano Rigilllo, Silvana Bosi, Liliana Oricchio Vallasciani, Pia Velsi, Stefano Ambrogi, Enzo Ardone, Fabio Bussotti, Tiziana Catalano, Domenico Diele, Stefano Fresi, Antonella Genga, Pietro Ghisladi, Elena Ingrosso, Pietro leccese, Grazia Loconsole, Marco Montingelli, Zuzanne Paluch,Claudio Parise, Tommaso Parisi, Isabella Ragno, Massimo Salvato, Michele Sinisi, Adelmo Togliani, Krtty Volpe, Pascal Zullino
Origine: Italia
Anno: 2013
In sala dal 10 dicembre 2015
Il film: Leone Pompucci – cinquantenne regista italiano che al suo esordio nel 1993 con Mille Bolle Blu (con cui aveva raccolto una messe di premi da Venezia ai Festival di Stoccolma e di Vevey oltre a un David di Donatello) era stato salutato come una promessa della nuova commedia italiana – torna nelle sale (grazie a Microcinema Distribuzione, società dedicata alla diffusione di opere di qualità ed eventi culturali) con questo suo terzo film (2013) che interrompe il lungo silenzio cinematografico intercorso dal 1995 anno di Camerieri (due Nastri d’Argento). Gli anni non hanno mutato la sua vena poetica e delicata e il suo sguardo ironico sulla vita anche se attento a quei piccoli e grandi problemi della quotidianità che generalmente si tende a ignorare forse perché riguardano un po’ tutti. È il caso di Maria Celeste (splendida Ida Di Benedetto che percorre con grande pudore e senza una sbavatura una vasta gamma di sentimenti), personaggio centrale che inizialmente definire scostante è un eufemismo. Maria Celeste è una donna anziana, ma non troppo, che vive a Roma in una casa di riposo non potendo più autogestirsi perché troppo frequentemente a casa lasciava aperti i rubinetti dell’acqua e del gas. È sola avendo da tre anni litigato con il figlio e rifiutando (forse per gelosia) la nuora. È orgogliosa, spocchiosa e non ha amicizie perché nella casa di riposo tratta tutti dall’alto in basso. Vedova e madre di commercialisti, abituata a vivere in una bella casa e a essere riverita, non accetta la sua attuale situazione. Non è un caso raro, ma è uno di quei problemi che la nostra società – basata sul successo, sull’eterna giovinezza fisica (anche artificiale) e sull’emarginazione (ora brutalmente definita rottamazione) degli anziani in quanto non produttivi – tende a rimuovere. Maria Celeste si cura anche come aspetto e ogni domenica lascia con il carrello della spesa ‘l’albergo’ (come lei chiama la casa di riposo) dicendo di recarsi dal figlio per cucinargli il sugo di pesce come solo lei sa fare. Compra i vari ingredienti e… si reca nella vicina stazione e siede su una panchina fino al pomeriggio. La spesa finisce nel cestino dei rifiuti. La troviamo alla vigilia di ferragosto in una Roma deserta, ma il solito tran-tran ha un imprevisto: è svegliata da una giovanissima ragazza che le pone in braccio un bambino (Leone) di dieci mesi e fugge. Maria Celeste l’insegue inutilmente, poi cerca vanamente in tutti i modi di liberarsi del bambino finché riappare la madre e lo riprende. Maria Celeste la segue e finisce con il parlare con la ragazza sentendone i sogni un po’ ingenui e confusi dominati da una grande sete d’amore. Per varie vicissitudini il bambino resta inesorabilmente a lei e comincia la sua avventura nel deserto ferragostano per proteggerlo, e questo suo percorso di bontà si trasforma in un viaggio in se stessa e nella sua vita portandola a recuperare o acquisire un’umanità dimenticata e un rapporto con gli altri. Film originale, dolce e melanconico, anche se non privo di momenti di umorismo, potrebbe essere quasi perfetto se il regista non avesse inserito qualche citazione di troppo di maestri del nostro cinema. È comunque molto godibile e sereno, alternativa raccomandabile alle molte proposte fracassone che riempiono le sale per chi vuol trascorrere un paio d’ore in una dimensione umana.
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LE RICETTE DELLA SIGNORA TOKU
Genere: drammatico
Regia: Naomi Kawase
Cast: Kirin Kiki, Masatoshi Nagase, Kyara Uchida, Miyoko Asada
Origine: Giappone
Anno: 2015
In sala dal 10 dicembre 2015
Il film: con il film di Naomi Kawase si è aperta la sezione ‘Un certain Regard’ dell’ultimo Festival di Cannes a testimoniare quanto in Francia sia stimata e amata questa brava regista nipponica dallo stile astratto, etereo e ricco di simboli e metafore, in verità a volte un po’ di difficile lettura. Diversamente dalle opere precedenti Le ricette della signora Toku – tratto dal romanzo An (anche titolo originale del film) di Durian Sukegawa – è invece leggibile e godibile da tutti, anche da chi non ama cercare le possibili simbologie e decifrarle: è uno sguardo pudico su una vicenda semplice e melanconica come certi paesaggi autunnali. La signora Toku sta vivendo serenamente l’autunno della sua vita (ha 76 anni) rallegrata dalla capacità di fare degli eccezionali dorayaki (tipico prodotto della pasticceria nipponica ripieno di marmellata di fagioli rossi) grazie a una marmellata (An in giapponese) di cui possiede una ricetta esclusiva e segreta. L’anziana signora decide di offrire la propria collaborazione a Santaru, un triste giovane ex carcerato che ha aperto una piccola attività specializzata in questo tipo di dolci: l’uomo, inizialmente piuttosto restio, di fronte all’insistenza e all’abilità della donna cede e fa la fortuna dell’esercizio. Ma il ‘sapore del successo’ – citando il titolo di un film statunitense dedicato al mondo della ristorazione – ha sempre una componente amara e antiche ferite tornano a sanguinare… La concomitanza di due film dedicati al cibo è molto interessante ed evidenzia come il cibo oggi abbia parametri diversi nelle due culture: nella nostra assume caratteri di nevrosi per raggiungere il risultato eclatante (le famose stelle o altri simboli delle varie guide), mentre nella cultura giapponese è elemento distensivo, quasi un calmante. La Kawase ha realizzato un film intimo, delicato – anche nel trattare il rapporto tra due solitudini provenienti da mondi apparentemente lontani – ed elogio della pazienza e della tolleranza, quasi una lezione di vita ed espressione della saggezza della vecchiaia. Le ricette della signora Toku è una boccata d’ossigeno per chi cerca un momento di serenità dal vuoto frastuono (anche morale) e dai ritmi ossessivi della quotidianità.