Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nel mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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Mesi precedenti: DICEMBRE 2015
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LA GRANDE SCOMMESSA
Genere: drammatico
Regia: Adam McKay
Cast: Brad Pitt, Christian Bole, Ryan Gosling, Steve Carell, Marisa Tomei, Melissa Leo, Finn Wittrock, Selena Gomez, Karen Gillan, Margot Robbie
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 7 gennaio 2016
Recensione: Ecco un film che tutti dovrebbero vedere prima di affidarsi ai venditori di prodotti finanziari, anche di quelli della banca di cui si è clienti: le cronache internazionali hanno mostrato che tra il maggior guadagno proprio e l’interesse di chi le affida i propri risparmi la banca privilegia se stessa. Il film è approdato sugli schermi italiani nei giorni in cui l’opinione pubblica apprendeva lo scandalo della Banca Etruria e di altri tre Istituti minori: piccola cosa di fronte agli eventi raccontati da La grande scommessa, ma anche il nostro sistema finanziario e bancario scompare di fronte a quello statunitense. Di finanza speculativa e di ‘titoli spazzatura’ si parla già da molti anni (è ormai dimenticata la tragedia dei bond argentini che ha reso povere migliaia di persone), specialmente da quando l’esplosione della bolla speculativa negli Stati Uniti ha creato una crisi che dal 2008 ha travolto il mondo e di cui stiamo pagando ancora le conseguenze. Il film ottimamente diretto da Adam McKay (regista specialista in commedie, le cui tecniche applica con ottimi risultati a una materia molto ostica come la finanza trattandola con stile leggero e pungente) inizia nel 2005 e prende in esame quel triennio che si concluderà con il crollo di Wall Street e alcuni fallimenti eccellenti come quello della Lehman. Il film è tratto dall’omonimo libro (The Big Short il titolo inglese) di Michael Lewis, mitico giornalista esperto di cronache finanziarie, che racconta una storia apparentemente incredibile, ma successa realmente. Nel 2005 l’economia statunitense appariva in ottima salute macinando record. ‘Appariva’ tale a chi conosceva il mercato ma non lo analizzava, o non voleva farlo, in modo approfondito: le intuizioni miracolose in economia non esistono, tutti gli eventi sono la logica evoluzione di premesse che possono essere viste o non viste, viste e ignorate sperando e autoconvincendosi che i trend in atto durino all’infinito. Un piccolissimo gruppo di speculatori di natura eterogenea ed ‘eccentrici’ al sistema analizzando i dati delle transazioni immobiliari si resero conto che i rendimenti su mutui e derivati nel giro di pochi anni sarebbero crollati e che i ‘mortgage-backed securities’ (pacchetti finanziari in cui sono inseriti migliaia di mutui diversissimi tra loro) sarebbero facilmente divenuti ‘titoli spazzatura’ travolgendo decine e decine di migliaia di piccoli risparmiatori. Il regista ha avuto un colpo di genio: spiegare gli ostici concetti della finanza non con il linguaggio degli addetti ai lavori (incomprensibile al resto del mondo, in primis ai risparmiatori-possibili vittime), ma con parole semplici di persone estranee a quel mondo. Per esempio ha affidato a un cuoco l’illustrazione della genesi dei ‘pacchetti’ a rischio: “Se ho un pesce di tre giorni non lo butto via, ma lo taglio a pezzi piccoli, lo salto in padella e faccio una ricetta in cui risulta irriconoscibile”. Il cliente momentaneamente può anche elogiare il piatto, ma poi sta male. È quello che è successo con i mutui immobiliari concessi in modo indiscriminato pur di incassare commissioni e interessi. I nostri ‘eroi’ tra il dileggio generale degli esperti che non sanno o vogliono leggere le logiche degli eventi scommettono contro il sistema nel momento del suo massimo splendore e persistono nonostante le difficoltà. Il finale del film può essere facilmente immaginato se a distanza di dieci anni dalla loro ‘intuizione’ e di sette dagli eventi che diedero loro ragione (e ricchezza) anche il nostro Paese è ancora ben lontano dai livelli economici pre-2008 e milioni di persone (non solo negli Stati Uniti) hanno perso risparmi, casa e lavoro. E i manager che hanno creato questo sconquasso mondiale senza eguali? Salvo rare eccezioni si sono tutti brillantemente riciclati: a piangere sono rimasti, come sempre, solo i poveracci. Indipendentemente dai contenuti il film è bello: un gioiello d’intelligenza, satira e controinformazione recitato ottimamente da un gruppo di attori eccezionali e scandito da un ritmo da noir. E in fondo lo è.
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THE VATICAN TAPES
Genere: horror
Regia: Mark Neveldine
Cast: Michael Peña, Olivia Taylor Dudley, Djimon Hounsou, Dougray Scott, John Patrick Amedori, Peter Andersson
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 7 gennaio 2016
Sinossi: Horror demoniaco che segna un quasi esordio in regia di Mark Neveldine. La ventisettenne Angela Holmes è del tutto normale fino al giorno in cui comincia a manifestare comportamenti inquietanti che inducono a pensare che improvvisamente sia posseduta dal demonio. Padre e fidanzato si rivolgono a un sacerdote che attraverso il Vaticano procura un paio di esorcisti. Il compito si rivela meno facile del previsto perché il demonio che alloggia in Angela non è molto intenzionato a togliere il disturbo.
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IL LABIRINTO DEL SILENZIO
Genere: drammatico
Regia: Giulio Ricciarelli
Cast: Alexander Fehling, André Szymanski, Friederike Becht, Johannes Krisch, Hansi Jochmann, Johann von Bülow, Robert Hunger Bühler, Lukas Miko, Gert Voss
Origine: Germania
Anno: 2014
In sala dal 14 gennaio 2016
Recensione: Giulio Ricciarelli, il cinquantenne regista italiano (nato Milano nel 1965 da padre italiano e madre tedesca è vissuto prevalentemente in Germania) de Il labirinto del silenzio (film designato a rappresentare la Germania agli Oscar) ha dichiarato di non riuscire a credere che molti tedeschi alla fine degli anni cinquanta non avessero mai sentito parlare di Auschwitz. Incredibile ma vero. Erano gli anni in cui la Germania, superato lo shock della sconfitta, sotto la guida del grande cancelliere Konrad Adenauer era impegnata a riguadagnare il ruolo di potenza mondiale, prima economica e poi politica, sviluppando inconsciamente un processo di rimozione del passato. In fondo come dice al giovane magistrato Radmann l’addetto militare americano all’archivio sul nazismo: “Voi tedeschi eravate tutti nazisti, lasci perdere, adesso il nemico è il comunismo” ed è a pochi chilometri anzi ‘occupa’ una parte della Germania. Gli anziani ricorderanno certamente come in quegli anni nel nostro Paese vi furono polemiche sulla proiezione di film sulle atrocità naziste per non turbare la serenità e la sensibilità dei turisti tedeschi. Probabilmente è stato il più massiccio tentativo di rimozione storica mai avvenuto, dovuto anche al fatto che il nazismo è caduto solo per opera degli eserciti alleati – nelle altre Nazioni, invece, alla caduta dei governi filonazisti contribuirono anche forze nazionali di Resistenza – per cui il processo di Norimberga (1945-1946) istruito dagli Alleati vincitori contro i Tedeschi sconfitti era quasi vissuto come un ultimo atto di guerra con cui furono condannati a morte i grandi responsabili del nazismo (quelli con pene detentive furono quasi tutti graziati negli anni cinquanta). Identificati e puniti pochi colpevoli, l’oblio assolveva tutti gli altri, impegnati a costruire la nuova Germania con il contributo anche degli efferati protagonisti dei crimini delle SS, tornati ai loro quotidiani mestieri. L’oblio però è un meccanismo che resiste fino a quando un granello di sabbia non lo inceppa: in questo caso è un giornalista Thomas Gnielka (ottimamente interpretato da André Szymanski) che nel 1958 s’imbatte nel caso di un gioviale maestro elementare che sarebbe un’ex guardia di Auschwitz. Riconosciuto come tale, dovrebbe per legge essere rimosso dall’incarico. Gnielka si reca al Palazzo di Giustizia per denunciare il fatto suscitando tra l’indifferenza generale solo la curiosità del giovane magistrato Radmann (splendida e convincente prova del giovane attore tedesco Alexander Fehling) che contro il volere del suo diretto superiore inizia a esaminare il caso. Man mano che procede si trova in un vero ‘labirinto del silenzio’ in cui nessuno vuol ricordare quasi temendo di spezzare un equilibrio basato sul silenzio sia dei carnefici sia delle vittime accumunati dal desiderio di dimenticare. Tutti, quindi, ostacolano il giovane magistrato, concretizzando la profezia del Procuratore Generale che nel consentirgli l’indagine gli suggerisce di non pensare che dopo la morte di Hitler i nazisti siano scomparsi. “Sono dappertutto e a ogni livello” lo avverte. Ricciarelli ed Elisabeth Bartel (sceneggiatrice) hanno creato una storia fittizia con una struttura e un ritmo da thriller sulla base di eventi realmente accaduti e hanno unito personaggi immaginari come Radmann (in realtà sintesi dei tre pubblici ministeri che condussero l’inchiesta iniziata nel 1958) ad altri reali come il giornalista e il dolente procuratore generale Fritz Bauer (cui è dedicato il film) – straordinaria l’interpretazione fatta da Gert Voss, leggendario attore del teatro tedesco – che da anni cercava di rompere il silenzio sui crimini commessi dalle SS, vanamente perché privo dei mezzi legali per un’azione penale. Il labirinto del silenzio non è solo una storia di coraggio personale e di lotta per ciò che si ritiene giusto, è anche – e soprattutto – l’ammonimento a ricordare il passato perché gli orrori non abbiano più a tornare, tanto più necessario in anni in cui le tensioni democratiche e l’ansia di libertà della seconda metà del Novecento sembrano a volte appannarsi. Fil rouge di tutto il film è il tema della responsabilità personale, valida oggi come allora, di fronte all’ordine di compiere azioni criminali che chiaramente vanno oltre le già tragiche regole della guerra. Per la cronaca il processo fu celebrato a Francoforte dal 20 dicembre 1963 al 20 agosto 1965 (ha anche ispirato uno dei drammi più belli di Peter Weiss: L’istruttoria). Fu un processo importante non perché furono condannate 17 delle 22 SS imputate (numero infinitesimale rispetto alle diverse migliaia che avevano prestato servizio nei campi di concentramento), ma perché per la prima volta la giustizia tedesca condannò crimini di guerra commessi da cittadini tedeschi, anche se da anni erano tornati cittadini ligi e benpensanti.
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QUO VADO
Genere: commedia
Regia: Gennaro Nunziante
Cast: Checco Zalone, Eleonora Giovanardi, Sonia Bergamasco, Maurizio Micheli, Lino Banfi, Nanni Bruschetta, Ludovica Modugno, Paolo Pierobon, Azzurra Martino
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 1 gennaio 2016
Recensione: nel 2009 quando sugli schermi è apparso il primo film (Cado dalle nubi) da lui interpretato, Checco Zalone (nome d’arte di Luca Medici, nato nel 1977 a Capurso, Bari) ha rappresentato una speranza per la comicità italiana da tempo orfana dei grandi protagonisti del secolo scorso, speranza confermata dal grande successo di Che bella giornata (2011). È però nel 2013 che esplode il fenomeno Zalone: Sole a catinelle è il film più visto in Italia (superando anche lo statunitense Avatar) con due milioni e settecentomila biglietti staccati e tutto lascia pensare che il primato venga mantenuto e migliorato da questo suo quarto lungometraggio, anche se deve affrontare rivali di notevole spessore e richiamo come il settimo episodio di Star Wars. Di fronte a un successo così travolgente è riduttivo parlare di accurata organizzazione e pianificazione del lancio del film (1.300 copie in altrettante sale italiane) o di saggia gestione dell’immagine del comico (un film ogni due anni e nessuna inflazione di presenze nei media) o di essere su misura per una società fortemente banalizzata. Poiché Quo vado? sarà certamente protagonista del botteghino 2016 è giusto chiedersi quali siano i motivi reali di questo straordinario successo (da non confondersi con il rilancio mondiale del Cinema Italiano come ha fatto un autorevole personaggio). I film di Zalone non sono mai avulsi dalla società in cui viviamo, paradossalmente possono essere considerati film politici (dove politica è diversa da partiti), poiché trattano sempre temi che la gente sente sulla propria pelle: la dialettica nord/sud in Cado dalle nubi, lo straniero in Che bella giornata, la crisi economica in Sole a catinelle e in quest’ultimo film il ‘posto fisso’ che non è solo un problema di lavoro o economico, ma investe la sfera culturale e l’organizzazione socio-economica di un Paese: è vero infatti che la sicurezza del posto spesso impigrisce le menti, ma la dinamica di società come quella statunitense (sempre portata a esempio dagli esegeti della precarietà) è accompagnata da una dinamica imprenditoriale che offre infinite opportunità di lavoro e che in Italia non esiste. Sono tutte problematiche – escludendo la prima che ormai fa parte soprattutto del folklore del nostro Paese – ben vive che creano un sotterraneo e stabile senso di paura e d’insicurezza: i film di Zalone con la loro comicità umana, il fatto che le situazioni che vive Checco sono comuni a ciascuno di noi o a un nostro vicino o consanguineo e il lieto fine assumono una dimensione liberatoria e rassicurante. Nei suoi film si ride e molto, ma si ride – in modo inavvertitamente catartico – di noi stessi proiettati sullo schermo. Quo vado? è anche ricco di piccole, splendide notazioni come quella sulla decisione approvata dal Parlamento di abolire le Provincie per ridurre i costi, abolizione che in quella in cui lavora Zalone si conclude con un unico non riassorbito: Checco. Affiora quindi all’attenzione dello spettatore un tema molto serio: le riforme devono essere fatte in modo equilibrato ponderandone nei limiti del possibile tutte le conseguenze e non solo per vantare un elenco di provvedimenti a uso dei media. E gli incentivi dispensati dalla funzionaria ministeriale (ottima Sonia Bergamasco nel ruolo della dottoressa Sironi) a chi si dimette perché non può accettare una destinazione lontana centinaia di chilometri da casa, ricordano molto le problematiche avvenute nel 2015 per la collocazione degli insegnanti. Il nostro Checco – formato dal padre (un sempre misurato Maurizio Micheli) nel mito del ‘posto fisso’ e consigliato dal vecchio senatore Binetto (Lino Banfi è sempre lui) simbolo del politico della Prima Repubblica cui il regista contrappone l’arido ministro del ‘nuovo corso’ (interpretato da Ninni Bruschetta) – è l’unico ad accettare destinazioni sempre più disagiate e ‘impossibili’ fino a finire in una base scientifica italiana al Polo Nord con l’incarico di difendere i ricercatori italiani dagli attacchi dell’orso polare, lui che nel natio paesino in Puglia per recarsi in ufficio doveva attraversare la piazza ed era abituato a ricevere l’omaggio dei suoi ‘sudditi’. Quando sta per crollare, gli viene affidata da proteggere Valeria (la brava e simpatica Eleonora Giovanardi), una ricercatrice che studia gli animali in via d’estinzione (e quindi anche Checco, simbolo del ‘posto fisso’) e attraverso di lei scoprirà un nuovo mondo e farà volare la mente al di fuori dei ristretti orizzonti entro cui era vissuto. Quo vado? è un film molto piacevole, raffinato, in certa misura originale, che fa divertire al solo ricordo e che semina, per chi li vuol raccogliere, molti spunti per ragionamenti che riguardano da vicino ciascuno di noi ogni giorno.
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LITTLE SISTER
Genere: drammatico
Regia: Hirokazu Kore-eda
Cast: Haruka Ayase, Masami Nagasawa, Kaho, Takafumi Ikeda, Suzu Hirose, Kirin Kiki
Origine: Giappone
Anno: 2015
Recensione: Hirokazu Kore-eda (vincitore a Cannes 2013 del Premio della Giuria con il bellissimo Father and son e autore di opere notevoli come After Life, I Wish Like e Air Doll) conferma con Little Sister la sua grande capacità di raccontare i sentimenti, l’intimità, le ferite del cuore e le emozioni profonde con emotività toccante, ma senza cadere nel sentimentalismo e nella lacrima facile. Il film – presentato in concorso a Cannes 2015 e vincitore del Premio del pubblico come miglior film al San Sebastián International Film Festival 2015 è ispirato dalla graphic novel Umimachi Diary della pluripremiata giapponese Akimi Yoshida – s’innesta nella tradizione giapponese che vede nella famiglia con i suoi rapporti e legami un soggetto privilegiato e che ha avuto nel grande Yasujiro Ozu un maestro indiscusso (una splendida iniziativa ha negli scorsi mesi riproposto sui nostri schermi alcuni dei suoi capolavori: vale la pena volare al cinema non appena si abbia il sentore della proiezione di un suo film). Kore-eda a differenza di Ozu non oppone la tradizione e la semplice vita della campagna alla modernità e alla città che favorirebbero l’entrata in crisi dei legami familiari con i padri che non riescono più a rapportarsi con i figli portatori nei rapporti di una disinvoltura che disarticola la tradizione, ma individua sempre nella volontà di reciproco aiuto il modo per contrapporsi al tarlo dell’individualismo egoista che mina in questa nostra epoca la società (e la famiglia). Il film inizia con un telegramma che annuncia la morte del padre che quindici anni prima aveva abbandonato (senza farsi più vivo) moglie, tre figlie e casa per andare a vivere con un’altra donna da cui avrà una quarta figlia. Yoshino e Chika (rispettivamente di 22 e 19 anni) non hanno intenzione di compiere il viaggio verso il paese di campagna in cui si era stabilito il padre provando verso di lui solo sentimenti di ripulsa, ma la sorella maggiore (la ventinovenne Sachi che ha fatto loro da madre) impone di andare al funerale per il tradizionale rispetto che si deve ai morti. Sono accolte da Suzu, la tredicenne sorellastra (splendidamente interpretata dalla giovanissima Suzu Hirose), forse l’unica persona presente alla cerimonia che realmente piange la morte del padre. All’ultimo momento arriva anche Sachi (è riuscita ad avere un permesso dal suo lavoro d’infermiera) che prova subito una forte simpatia per Suzu (già rimasta orfana di madre e con scarso feeling con la matrigna) e la invita ad andare a vivere con loro nella grande casa a Kamakura (città di mare a circa cinquanta chilometri da Tokyo). Inizia un viaggio interiore in cui ogni sorella grazie alla presenza di Suzu non può continuare a rimuovere il passato e, uscendo dal proprio guscio, imparerà molto su se stessa e sulle altre. Il racconto è fatto di piccoli gesti all’apparenza insignificanti ma pieni di significato, di sguardi e di silenzi più che di parole, di piccole gioie, di momenti di intimità e di melanconia (toccanti le sequenze del kimono). Il regista, ottimamente coadiuvato dalla splendida fotografia di Takimoto Mikiya, disegna quattro diverse personalità femminili tra loro complementari interpretate da quattro brave e simpatiche attrici tra le quali svetta (oltre a Suzu Hirose) Haruka Ayase che rende con grande intensità e senza sbavature la complessa figura di Sachi cui è spettato sopperire non solo al padre ma anche alla figura disastrosa della madre che (fortunatamente per loro) vive in un’altra città. Unico riferimento familiare per le ragazze è la prozia le cui perplessità dovute all’età e provenienti da un’educazione diversa sono ottimamente rese da Kirin Kiki (la protagonista del recente Le ricette della signora Toku). Little Sister per la semplicità, la dolcezza non priva ora di melanconia ora di umorismo e allo stesso tempo la capacità di rendere la forza dei sentimenti è uno dei film più emozionanti apparsi sugli schermi in questi ultimi anni. Da vedere.
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IL PICCOLO PRINCIPE
Genere: animazione
Regia: Mark Osborne
Cast voci: Toni Servillo (L’Aviatore), Paola Cortellesi (La Mamma), Vittoria Bartolomei (La Bambina), Lorenzo D’Agata (Il Piccolo Principe), Stefano Accorsi (La Volpe), Micaela Ramazzotti (La Rosa), Alessandro Gassmann (Il Serpente), Giuseppe Battiston (Uomo d’affari), Angelo Pintus (Il Sig. Principe), Pif (Il Re), Alessandro Siani (L’Uomo Vanitoso), Carlo Valli (L’Insegnante), Carlo Reali (L’Esaminatore), Melissa Maccari (La Vicina di casa), Stefano Oppedisano (Il Vicino di casa)
Origine: Francia
Anno: 2015
In sala dal 1 gennaio 2016
Recensione: confesso di aver provato una certa diffidenza recandomi a vedere Il Piccolo Principe (presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2015) essendo stato profondamente deluso sia dalla trasposizione cinematografica di Stanley Donen (1974), sia dalle due recenti riduzioni teatrali in cui più che la poesia dominava la noia. Trasferire sullo schermo senza tradirle e rispettandone l’atmosfera poetica le vicende dell’opera scritta da Antoine de Saint-Exupéry (scrittore, poeta e pioniere dell’aviazione) – pubblicate per la prima volta nel 1943 (un anno prima della sua morte), tradotte in oltre 250 tra lingue e dialetti con più di 80 milioni di copie vendute nel mondo, – era impresa degna di un genio della regia. Il quarantacinquenne regista statunitense Mark Osborne – noto per aver diretto nel 2008 con grande successo di pubblico Kung Fu Panda (con 650 milioni di dollari è uno dei dieci maggiori incassi di ogni epoca per i film di animazione) – ha intuito due scelte fondamentali: rivisitare la trama del romanzo rispettandone però lo spirito e utilizzare due diverse tecnologie per le animazioni. Basandosi sull’assioma, peraltro giusto, che ogni lettore del romanzo ha una propria idea del Piccolo Principe e del suo mondo, Osborne ha visto i protagonisti di questo ‘falso racconto per l’infanzia’ (come Alice nel Paese delle Meraviglie) attraverso l’occhio di una bambina che diviene il perno della narrazione filmica. Le avventure della piccola protagonista fanno quindi da cornice a quelle del Piccolo Principe. Liaison tra le due storie è il vecchio aviatore. Su questo schema s’innesta la decisione del regista di adottare la tecnica computer grafica per il mondo reale segnato da colori dal tono grigio e da immagini geometriche (nella forma e nello spirito richiamano alla memoria Metropolis di Fritz Lang) e i processi tradizionali dell’animazione utilizzando colori dai toni caldi per il mondo della fantasia abitato dal Piccolo Principe e dai suoi amici, facendo rivivere le illustrazioni originarie dell’opera di Saint-Exupéry. Il film inizia con la piccola protagonista (molto più matura dei suoi dieci anni) che deve prepararsi per sostenere il concorso d’ammissione alla prestigiosa accademia Werth. L’efficientissima e tirannica madre predispone un minuzioso programma di studio (piccola sezione di un’agenda che pianifica ogni ora del tempo della figlia fino a quando sarà adulta) che ne assorbe tutto il tempo non lasciando spazi alla libertà e alla creatività della bimba, inoltre per rimuovere un possibile ostacolo decide di andare ad abitare nel quartiere della scuola. Ma, come dice il proverbio, ‘il diavolo fa le pentole ma non i coperchi’: la nuova razionalissima casa confina con un cadente palazzetto (unico retaggio del passato) abitato da un eccentrico signore con cui la bambina casualmente stringe amicizia scoprendo che si tratta di un vecchio aviatore un po’ svitato che tiene in giardino un vecchio aereo di cui ogni tanto accende il motore combinando guai anche alle case vicine. Fortuna vuole che la madre durante l’intera giornata sia assorbita dal lavoro, così la bambina ogni tanto può evadere per andare ad ascoltare le affascinanti storie, corredate da appunti e disegni, che il vicino le racconta sui suoi voli e in particolare su quell’atterraggio di fortuna in pieno deserto in cui ha conosciuto uno strano e gentile bambino venuto da un altro pianeta. Irrompono così attraverso gli appunti e i disegni dell’aviatore (Saint-Exupéry in un’età che non ha mai raggiunto) il Piccolo Principe, la volpe, la rosa, il serpente e tutti gli altri personaggi che hanno popolano questo straordinario racconto. Merito di Osborne è avere realizzato senza mai perdere il senso magico del testo di Saint-Exupéry un’opera accattivante, divertente, dinamica, in certi passaggi proiettata nel futuro e in cui alla poesia iniziale è abbinata l’azione prevalente nelle sequenze finali. Parimenti restano incisivi i suoi valori morali: non sacrificare mai il proprio essere per il successo o per divenire qualcosa di diverso e non rinunciare mai a sognare nemmeno da adulti perché chi smette di sognare diviene arido e grigio come lo è la società quando è rivolta solo alla ricerca del profitto. I mondi contrapposti della super efficiente madre e dell’eccentrico aviatore rappresentano due diversi modelli educativi, ma solo quello creativo permette che la crescita dell’uomo sia determinata da un percorso di libertà. E una società di uomini liberi è sempre infinitamente migliore di una solo efficiente.
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CAROL
Genere: drammatico
Regia: Todd Haynes
Cast: Cate Blanchett, Rooney Mara, Sarah Paulson, Jake Lacy, Kyle Chandler, John Magaro, Cory Michael Smith
Origine: Gran Bretagna Usa, Francia
Anno: 2015
In sala dal 5 gennaio 2016
Recensione: film in costume (ormai gli anni cinquanta del Novecento rientrano nella categoria) tratto dal romanzo The Price of Salt (divenuto all’epoca un caso letterario per la franchezza del linguaggio) scritto nel 1951 da Patricia Highsmith sotto lo pseudonimo di Claire Morgan e già questa circostanza lascia capire quale fosse il clima negli Stati Uniti di Eisenhower nei quali l’omosessualità era considerata un disturbo della personalità (ma anche nella nostra ‘evoluta’ società esistono ancora forti resistenze a riconoscere a uomini e donne il diritto di amare e vivere con serenità secondo la propria natura). Con Carol il cinquantacinquenne regista californiano torna a raccontare l’America degli anni cinquanta mettendo in luce la realtà esistente sotto la patina di perbenismo di una società ipocrita e bacchettona. Carol Aird e Therese Belivet sono due donne di diversa età ed estrazione sociale: ricca borghese la prima, giovane e timida provinciale approdata a New York in cerca di un futuro (vuol divenire fotografa) la seconda, ma entrambe più o meno consciamente impegnate nella ricerca della propria identità e a sfuggire a un microcosmo domestico e sociale che le opprime. L’incontro avviene casualmente in una gelida vigilia del Natale 1952: l’elegantissima e sofisticata Carol entra in un grande magazzino di Manhattan alla ricerca di un giocattolo da regalare alla figlia di pochi anni e s’innamora di uno splendido trenino elettrico (siamo nel 1952 e quel regalo era il sogno proibito di milioni di bambini), ma soprattutto resta folgorata dalla calma bellezza e dalla dolce semplicità della giovane Therese (una Rooney Mara che fa riemergere dai ricordi un mito di quegli anni: la Audrey Hepburn di Sabrina), commessa nel reparto giocattoli. Carol seguendo impulsi ancora indefiniti torna più volte al banco dei giocattoli e tra le due donne nasce una sintonia spirituale che ha fatto definire da parte di alcuni il film ‘un melodramma’ con tutte le accezioni negative che il termine comporta nella nostra tradizione culturale. Carol è, invece, una profonda storia d’amore (il cui valore è assoluto indipendentemente dal sesso dei protagonisti) vista e raccontata dal punto di vista di Therese, la più fragile delle due donne e alla ricerca di capire se stessa sentendosi turbata da Carol e non provando nessuna attrazione se non d’amicizia per l’altro sesso compreso il giovane fotografo innamorato di lei. Il viaggio che le due donne intraprendono in auto verso Chicago diviene per Therese un percorso di elaborazione e di presa di coscienza: al suo termine la ragazza sarà più consapevole del proprio essere. Rooney Mara (meritatamente Palma d’Oro a Cannes 2015 – dove il film era in concorso – per la migliore interpretazione femminile insieme a Emanuelle Bercot) ricostruisce perfettamente la sofferta evoluzione di Therese. Altrettanto di livello è Cate Blanchett la cui Carol Aird da un lato deve corrispondere a come la vede Therese, dall’altro è una donna reale in un passaggio di vita di per sé complesso, ulteriormente complicato dalle problematiche relative alla definizione delle clausole per il divorzio e alla conseguente lotta per l’affidamento della figlia. Il fascino del film, oltre alle due splendide protagoniste, è dovuto alla scrittura raffinatissima di Todd Haynes ottimamente coadiuvato dai bellissimi costumi di Sandy Powell: chi desidera rinfrescare la memoria sugli abiti e l’atmosfera della propria infanzia o giovinezza non può mancare questo bel film, così come chi è curioso di conoscere ‘l’atmosfera culturale’ in cui vivevano i propri nonni.
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ASSOLO
Genere: commedia
Regia: Laura Morante
Cast: Laura Morante, Piera Degli Esposti, Lambert Wilson, Francesco Pannofino, Marco Giallini, Donatella Finocchiaro, Angela Finocchiaro, Antonello Fassari, Emanuela Grimalda, Carolina Crescentini, Gigio Alberti, Eugenia Costantini, Edoardo Pesce, Giovanni Anzaldo, Filippo Tirabassi
Origine: Italia
Anno: 2015
In sala dal 5 gennaio 2016
Recensione: secondo lungometraggio (dopo Ciliegine del 2012) di Laura Morante regista, Assolo è una piacevole commedia agrodolce su una cinquantenne (Flavia disegnata dalla Morante, anche attrice, con humor sottile e doloroso) in grave crisi di autostima. Il titolo richiama le composizioni musicali in cui l’armonia degli strumenti e dei ritmi comprende anche gli ‘assolo’ che spesso ne rappresentano le punte di diamante: e la vita non è come uno spartito musicale? Flavia a cinquant’anni si trova forse per la prima volta non solo a dover affrontare la vita da single, ma anche senza riferimenti familiari poiché i due figli ormai vivono per conto loro. Assolo inizia in una stanza grigia in cui vestiti di nero e raccolti intorno alla sua bara vi sono tutti gli uomini che in qualche modo hanno fatto parte della vita di Flavia: i due mariti, i due figli (uno per marito), l’ultimo amante sempre preoccupato di non insospettire la moglie e con il quale il rapporto si è chiuso da poco, altri protagonisti e comprimari della sua esistenza. Nessuno pare particolarmente addolorato e tra un commento e l’altro sul loro rapporto con la defunta decidono di recarsi nella stanza accanto: aprono la porta che immette in un locale pieno di allegria e belle donne che attendono gioiosamente i nostri ‘transfughi’. Si tratta solo di un suo sogno ricorrente, sintesi delle sue problematiche, che Flavia racconta all’analista (una formidabile Piera degli Esposti). Tutto il sogno è, infatti, percorso (nei discorsi tra gli ex mariti e l’ex amante e nel loro precipitarsi nella festa che rappresenta quel mondo di cui Flavia non ritiene avere ‘i numeri’ per farne parte) dalla disistima che prova verso se stessa fin da bambina e che cinquantenne single continua a terrorizzarla fino a non riuscire ancora a prendere la patente. Ha quindi da sempre il bisogno disperato di una famiglia, tanto da restare legata ai due ex mariti e a essere divenuta amica delle loro attuali mogli che mitizza come esempi da imitare (con il complesso di non riuscirci) mentre sono persone normalissime con i loro difetti e problemi. La crisi di Flavia è in parte comune a moltissime donne (ma non solo donne) quando non si sentono più giovani ritenendo che solo la giovinezza e la prestanza fisica diano loro valore: ecco quindi la corsa alle palestre e alla chirurgia estetica con risultati molto spesso penosi poiché s’insegue qualcosa che non c’è più, né si può far tornare. Una problematica che è sempre esistita, ma che l’attuale società dell’immagine – che privilegia l’apparenza all’esperienza – ha accentuato, come succede alla nostra ‘eroina’ nel grande hotel in cui lavora dove viene rimossa dal ruolo di contatto con il pubblico e ‘nascosta’ in amministrazione per far posto a un’immagine più giovane e aggressiva. E può essere contenta di aver salvato il posto di lavoro in un mondo in cui chi per motivi anagrafici non corrisponde agli attuali canoni d’immagine è da ‘rottamare’ (usando la terminologia di un ‘autorevole’ politico). Assolo è una commedia profondamente umana (confermando l’ottica già emersa nel suo primo film della Morante regista) e pur non volendo essere un trattato né di sociologia né di psicologia pone con la levità dell’ironia problemi reali della nostra società e delle molte persone che come Flavia, cercando sempre conferme degli altri al proprio agire, finiscono con il dipendere in tutto e per tutto da qualcuno. Il finale aperto all’interpretazione dello spettatore è comunque sotto il segno di quella serenità provata da Flavia nel rapporto con la cagnolina dei vicini. Assolo ha ritmo e grazia, è intelligente e divertente e – caso abbastanza inconsueto in un cast così numeroso – ogni attore è perfetto nel ruolo.
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MACBETH
Genere: drammatico
Regia: Justin Kurzel
Cast: Michael Fassbender, Marion Cotillard, Jack Madigan, Paddy Considine, David Thewlis, Jack Reynor, Sean Harris, Elizabeth Debicki
Origine: Gran Bretagna, Francia
Anno: 2015
In sala dal 5 gennaio 2016
Recensione: tragedia tra le più spettacolari scritte dal grande drammaturgo inglese le cui opere (siano tragedie o commedie) hanno il pregio di essere attuali nonostante il trascorrere dei secoli, segno che – salvo il mutare degli orpelli – vizi, virtù, debolezze, mente e cuore degli uomini sono rimasti quelli così perfettamente descritti da Shakespeare. Di Macbeth sono infinite le trasposizioni teatrali (insieme al monologo di Amleto passaggio obbligato per qualsiasi grande attore all’apice della carriera) così come quelle cinematografiche: tra le molte come non ricordare il Macbeth di Roman Polanski (1971) o risalendo negli anni la versione giapponese di Akira Kurosawa (Il trono di sangue del 1957) o il Macbeth firmato da Orson Welles nel 1948 e tuttora ineguagliabile? Spetta ora al quarantenne australiano Justin Kurzel misurarsi con le vicende di questi due simboli dell’ambizione e della sete di potere senza limiti e freni morali e lo fa ottimamente (non sfigurando nel confronto con i grandi maestri del passato) confezionando un film molto fedele all’opera shakespeariana di cui ha mantenuto i dialoghi originali. La vicenda del signore di Glamis è nota a tutti: combattente intrepido e leale e valoroso generale di Duncan, re di Scozia, Macbeth sbaraglia sul campo di battaglia le truppe del traditore Macdonwald. Le sequenze della battaglia sono esemplari e affascinanti nella loro durezza che ben rende la brutalità e la grandezza di una lotta per sopravvivere che coinvolge uomini e cavalli in una tragica confusione di sfide corpo a corpo. Vittoria generosamente compensata dal Re, ma per Macbeth turbata dallo strano incontro con tre streghe che gli appaiono sul campo di battaglia profetizzandogli un futuro allo stesso tempo esaltante e amaro: sarà Re di Scozia, ma discenderà da Banquo, suo fedele commilitone, la dinastia reale. È vero che streghe, elfi, fate… abbondano nelle opere di Shakespeare e nelle leggende e tradizioni popolari della Gran Bretagna, ma è difficile pensare che il Bardo credesse nella loro esistenza, per cui le streghe (come poi il fantasma di Banquo) sono un modo per rendere esplicite e visualizzare le ambizioni e le ossessioni di Macbeth segnato anche dal dolore per la recente morte dell’unico figlio, oggettivo limite a eventuali aspirazioni a creare una dinastia. Sentimenti che s’innestano degenerando in una situazione mentale sconvolta dallo stress dei combattimenti (le cronache di questi anni sono molto ricche di casi di nevrosi se non di follia tra i reduci, anche decorati, di guerre in cui il nemico, a differenza di allora, è spesso invisibile). Uno stress che si manifesta in Macbeth con improvvisi attacchi come quello nella scena del banchetto giustificato dalla moglie “sappiamo che lui soffre di questi attacchi, di queste allucinazioni”. L’annuncio di Duncan – effettuato durante la festa offerta al Re dai Macbeth nel loro castello di Inverness – di voler cedere la corona al figlio Malcolm scatena la follia nella mente turbata del generale e gli fa accettare il suggerimento della moglie di uccidere il Re. Il colpo riesce e dell’assassinio viene accusato Malcom che è costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Poiché spesso i delitti sono come le ciliegie (uno tira l’altro) anche per Macbeth ne inizia una serie per eliminare possibili o immaginari rivali, testimoni o accusatori: il valoroso condottiero si trasforma in un efferato tiranno. Allora come oggi il potere e il desiderio smodato di esercitarlo sono ineguagliabili corruttori: chissà cosa scriverebbe oggi Shakespeare sull’argomento, forse – salvo che per le immani tragedie del Novecento – creerebbe commedie se non farse. Kurzel conduce con una regia di notevole livello – aiutato anche dalla splendida fotografia di Adam Arkapaw le cui immagini sottolineano le allucinazioni e la follia di Macbeth e la cupezza della tragedia – al suo epilogo la vicenda con le possenti scene dell’attacco al castello di Dunsinane. Il livello di tutto il cast è alto e Michael Fassbender e Marion Cotillard offrono due interpretazioni di altissimo livello, in particolare la Cotillard disegna una lady Macbeth demoniaca suggeritrice iniziale, ma ben lontana dall’immagine di un ‘distillato di cattiveria’ in cui molto spesso è stata confinata, anzi spesso appare più come una donna che dedica se stessa allo stare accanto – finché le è possibile – al proprio uomo cercando il modo di superare con lui, anche incitandolo al delitto per ambizione, il trauma della morte del figlio.