In questo periodo di festività natalizie, sul palcoscenico del Teatro della Cometa si rinnova ogni sera il Natale visto da un’ottica laica e poetica piuttosto inusuale. Il sipario si apre su due pastori ondeggianti nella penombra che cantano inni, come in un antico presepe napoletano.
Corallo e Armonio, in viaggio dalla Magna Grecia al Medio Oriente dopo l’omicidio di un console romano, con l’asinella Rosaria che traina uno sgangherato carrettino contenente poche suppellettili, sono alla ricerca di un tetto. Il rabbino Arcadio, ambigua figura di agente immobiliare ante litteram, in giacca e cravatta, quasi catapultato dal presente indietro di 2000 anni, trae profitto da ogni tugurio, e affitta agli stanchi pellegrini una grotta. I pastori cercano di proteggere la loro Rosaria che l’avido rabbino, espressione dell’arroganza tributaria romana, minaccia di requisire.
Il villaggio è densamente popolato e i sonni dei pastori sono turbati dagli schiamazzi e dai gemiti provenienti dalla grotta attigua, occupata da una prosperosa ragazza dai lunghissimi capelli corvini, che effettua un mestiere in voga già all’epoca. Sara è estroversa e tenta di conquistare l’indulgenza dei due pastori impostando rapporti di buon vicinato, come si conviene tra persone immigrate: lei è originaria di Messina, loro di Napoli.
Le cadenze dialettali si mischiano insieme alla reciproca solidarietà sotto il cielo stellato di Betlemme, attraversato dalla luce accecante di una stella dalla lunga scia. Armonio, titubante, va a vedere cosa succede e torna raccontando che in una grotta è nato il piccolo Gesù. Irrompe il rabbino che impone ai due di eseguire l’editto romano di uccidere tutti i neonati maschi. Cosa fare? Vorrebbero fuggire, ma Arcadio minaccia di denunciarli per l’omicidio del console. Armonio si allontana mesto, Sara tenta di alleggerire la tensione esibendo una accentuata cadenza romana. Armonio torna annunciando di aver donato la sua inseparabile Rosaria ai genitori di Gesù per fuggire portando in salvo il bimbo.
Il finale, amaro, è pervaso di lirismo: i due pastori recano sulle spalle le croci della loro condanna a morte, quasi un anticipo dell’altro evento speciale che segnerà l’esistenza di quel bambino.
Antonio Grosso e Francesco Stella hanno scritto questa rivisitazione del Natale riproponendo la nascita nella stalla, ma accanto ad altri derelitti. Non ci sono re magi, solo un cofanetto con oro, incenso e mirra abbandonato nella fuga.
Un testo permeato da una profonda verità umana, se non storica, di fratellanza e solidarietà, in cui i due pastori precorrono gli insegnamenti cristiani di amare il prossimo come se stessi, anche a costo della vita. Una scrittura in punta di penna, innovativa per ispirazione e stile, arguta e rispettosa dell’aura di sacralità che il tema evoca, tuttavia capace di far vibrare le corde della comicità sottile e toccante, con alcune contaminazioni di modernità come gli accendini, la musica pop e il giovane biondino conosciuto per caso che è l’Arcangelo Gabriele.
Antonio Grosso ha riservato per sé la parte del giovane Corallo schietto e pragmatico, affiancato da Ciro Scalera nel ruolo dello zio Armonio dal cuore tenero che ama la sua asinella con tenerezza. Spontanei, complici, solidali, i due attori propongono uno spaccato di umanità, con le debolezze e le miserie della povera gente che si deve difendere da innumerevoli vessazioni. Federica Carruba Toscano ha le physique du rôle per dare credibilità al suo personaggio, misurata nelle esternazioni e incisiva nella parlata dialettale. Antonello Pascale è l’estemporaneo rabbino che vuole mimetizzare le sue ascendenze napoletane, comico e imprevedibile.
La regia di Ninni Bruschetta rende credibile l’ambientazione e la rappresentazione di questa originale Natività, in cui i personaggi testimoni dell’evento e determinanti per l’esito della vicenda sono emigranti di origine italiana, scanzonati e talvolta sfrontati, ma sensibili e coscienziosi.