di Pier Paolo Pasolini
regia di Francesco Saponaro
con Andrea Renzi, Maria Laila Fernandez, Clio Cipolletta, Luigi Brignone, Francesco Maria Cordella ed in video Anna Bonaiuto
scene di Lino Fiorito
costumi di Ortensia De Francesco
sarta Anna Russo
luci di Cesare Accetta
direzione tecnica di Diego Becchimanzi
videoproiezioni di Mauro Penna
assistenti alla regia Giovanni Merano e Luca Taiuti
assistente ai costumi Francesca Apostolico
suono di Daghi Rondanini
Produzione Teatri Uniti in collaborazione con l’Università della Calabria
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“L’autore continua a detestare, con tutta la relativa lucidità della sua ragione, ogni scenografia che non sia solo indicativa: perché se tale non è, altro non è che un elemento di quel rito sociale che il teatro è per la borghesia, e che l’autore quindi non può amare. […] Adopera [l’autore] il vecchio teatro, mescolato alla pittura, come un elemento espressivo del senso incerto.”
Così, nell’introduzione al II stasimo, l’autore in terza persona, uno “speaker”, giustifica l’utilizzo di caratteri afferenti alle convenzioni teatrali, filologicamente – potremmo dire – ripresi da Francesco Saponaro che mette in scena “Calderón”, primo testo teatrale di Pier Paolo Pasolini.
Un letto con un lenzuolo bianco acquista il centro della scena mentre alle spalle un grande pannello intarsiato di immagini “baroccheggianti”, con due porte e due schermi gemelli, campeggia nelle sue sfumature chiaroscurali. Il tratto che non lo rende elemento scenografico “realista”, ma più o meno “concettuale” sta nella progressiva scomposizione che consente, nei vari episodi di cui si costituisce la drammaturgia dell’opera, un’ambientazione differente. D’altro canto, su tale struttura si riflettono i quadri d’arte spagnola – in primis “Las Meninas” di Veláquez, con richiami alla versione cubista di Picasso – ai quali sono integrati, a mo’ di videoproiezioni – i due personaggi (padre e madre di Rosaura) che sulla falsa riga di quelli ritratti dall’artista secentesco, compaiono dai due schermi che l’inquadrano allo specchio, come suggerito nel testo.
L’integrazione di linguaggi multipli non sottende ad una libera resa del regista, ma sottostà in linea di massima alle indicazioni dell’autore, rispettando sostanzialmente il testo integrale ed originale.
Ciò che è evidente di questo allestimento, è l’attenzione al valore della lingua la cui omogeneità che rinveniamo leggendo Calderón si frantuma, in un’alternanza di dialetto, spagnolo ed italiano, tre idiomi diversi che anticipano il “risveglio” di Maria Rosa/Rosaura (interpretata dalla brava Maria Laila Fernandez) alla sua vita borghese contro la quale, attraverso il sogno, si è sinceramente opposta e nella quale, una volta risvegliata, non le resta che perseverare nel suo rifiuto, e quindi nella sua diversità, attraverso il respingimento della forma linguistica più convenzionale e condivisa; una buona intuizione di Saponaro è difatti, quella di inserire la diversità delle lingue che esplicano maggiormente il volontario estraniamento della protagonista, coerentemente con le idee che lo stesso Pasolini aveva sulla stessa questione linguistica (in particolar modo, egli vedeva nell’italiano standard, un’importante spia dell’omologazione e strapotere borghese).
Partendo dall’opera di Calderón De La Barca, “La vida es sueño” Pasolini tesse una drammaturgia a struttura episodica, redistribuendo ai suoi personaggi i nomi dei protagonisti dell’opera spagnola, in base ad un sottile richiamo psicoanalitico; Maria Rosa diviene Rosaura, da rampolla di nobile famiglia franchista (ma di nascita controversa, come in De La Barca) a prostituta nelle baracche di Barcellona, viaggio “diastratico” entro cui il nome Basilio, re-padre di Sigismondo, eroe del dramma di De La Barca, è attribuito al nobile “patrigno” nel sogno, e poi, nella realtà all’uomo che ha sposato in base a convenzioni puramente borghesi, venendo a designare una paterna identità freudiana che si va sdoppiando ulteriormente in Sigismondo, il padre biologico di cui la Rosaura-nobile s’innamora, vedendo in lui, a sua volta, il coraggio di opporsi al fascismo spagnolo ed in Pablo; quest’ultimo, figlio impuro della borghesia rinnega il proprio ceto sociale, è invero figlio di Rosaura-prostituta e come il Sigismondo-padre della nobile Rosaura, rivela la sua rivoluzionaria natura. È ovvio che la triade Basilio-Sigismondo-Pablo offre la chiave di lettura ideologica, tanto cara all’intellettuale friulano, che filtra, attraverso l’ambivalenza sogno-realtà, la stessa natura di Maria Rosa/Rosaura: quest’ultima, figlia borghese, assurge ad emblema di “figlia rivoluzionaria” e che come tale bisognosa di “guarigione”.
In questo lungo processo di continui risvegli e faticose agnizioni forzate, traspare a poco a poco la remissiva natura della protagonista, quella docilità che a Pasolini piaceva attribuire agli “esclusi” di contro la ferocia, ossessivamente identificata negli occhi dei “membri medi” e dei “potenti” che fanno del mondo, un’unica omologazione borghese. Ma, prima di tutto, la Rosaura pasoliniana si pone simbolicamente come corpo, corpo della storia, corpo cioè cosa – la parabola del sogno la riduce finalmente a ciò – sulla quale esercitare il potere coercitivo che in Calderón non manca di identificarsi nella religione (il primo incontro con lo psichiatra che cura Maria Rosa è difatti in un convento) e nel sesso, intesi come strumenti nelle mani di quello borghese e fascista assieme.
Il continuum o la moltiplicazione del suo sogno si profila gioco necessario, compimento di un rito, fatto coincidere con la forma estetica del teatro che dal di dentro Pasolini preferisce svuotare di ogni imitatio alla base delle abitudini e prassi borghesi, sottoponendolo alle riflessioni ideologiche disseminate lungo il testo. Il rito, dunque, metafora del ciclo della storia, espiato attraverso il corpo della protagonista che inconsciamente tenta di espurgare la sua identità di donna, moglie e madre borghese, viene compiuto con un simbolico sacrificio finale che consiste nella riduzione a “cosa” sotto l’autorità del Basilio, marito e padre borghese. Ristabilito quindi è l’ordine con il quale in maniera fatalistica l’autore decreta fallita l’aspirazione operaia, unica reminiscenza che Maria Rosa riesce linguisticamente a definire del suo sogno, inestricabile groviglio di pulsioni incestuose, quali rivelatori di un profondo malessere nei confronti del potere autoritario, prima fascista, poi, naturalmente, borghese.
A coadiuvare l’attrice spagnola nel ruolo di Rosaura, una brillante Clio Cipolletta nelle vesti delle diverse sorelle di Rosaura e che con Maria Laila Fernandez ci restituisce un buon ritmo nell’alternarsi dei vari quadri; detentrici, tra l’altro, di lingue e registri differenti, le due attrici riescono a rendere il testo pasoliniano, in certe parti troppo ideologicamente farcito e quindi duro a digerire, accattivante; più ligio, invece, alla natura della drammaturgia Andrea Renzi nei panni di Sigismondo/Basilio, ugualmente più didascalici per le loro parti, Francesco Maria Cordella medicio/prete ed il giovane Luigi Brignone, nelle vesti di Pablo che, nonostante il suo permanere frontalmente alla platea in quanto portatore di un’ideologia all’interno del dramma, riesce a rimandare una certa forza vitale annidata nella gioventù idealista, tratteggiata da Pasolini come contraltare alla realtà franchista.
Ci chiediamo, tuttavia, quanto siamo capaci – sia spettatori e sia registi – in un testo del genere, di rinvenire tracce per analizzare i nostri fenomeni dittatoriali contemporanei, così dissimili da quelli di circa cinquanta o sessanta anni fa. Siamo andati oltre un’ideologia a volte ossessiva (secondo la sensibilità pasoliniana) o categorizzazioni estetiche, non per ricostituirne una nuova o esporre una vecchia, ma per reinterpretare un rito come parabola di ogni luogo e momento della storia?