di Giovanni Testori
regia ed interpretazione di Antonio Ferrante
allestimento di Maria Palumbo
selezione musicale di Massimo Arcidiacono
Presentato da Antonio Ferrante
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“I luoghi della vita e quelli del teatro”, è uno dei versi che più ci portiamo dentro perché è in questa separazione che si annida la morte, espressa come rito necessario, compimento del transito terreno e, quindi, estremo atto di natura e d’amore assieme in cui s’incarna la pienezza di un’esistenza.
Di “Conversazione con la morte”, monologo ed oratorio poetico scritto nel 1978 da Giovanni Testori, e ripreso da Antonio Ferrante che ne firma regia ed interpretazione, se ne apprezza in primis l’alta poesia che contraddistingue la tormentata liricità dell’autore, per molti quasi sconosciuto, senonché bandito dai manuali di letteratura italiana a scuola. In seconda battuta, assistendo ad uno spettacolo come quello che nello scorso weekend ha preso vita al Teatro Elicantropo, ci si porta dentro, una volta fuori dalla sala, la sensazione di aver appena riscoperto quanto sedersi ed ascoltare un testo, abolendo l’ idea che di riflesso, senza pensarci abbiamo che il teatro sia sinonimo di spettacolo, e prestare attenzione ad un fluire di parole alla ricerca di una dimensione eterna e religiosa, possa essere ciò che, contro ogni previsione, si va inconsciamente cercando.
Nel 1978 Testori recitò “Conversazione con la morte” davanti a torme di giovani accorsi ad ascoltarlo; si era nel periodo successivo al boom economico, Pasolini era già morto lasciando in eredità la più inesorabile condanna del nostro occidente; “benessere, futuro e libertà” verso citato la fine del monologo ci ricorda l’angosciante profezia del poeta friulano, qui nello scrittore lombardo, motivo di ulteriore atterrimento nel veder la nostra società abiurare ad una più umana e “religiosa” conservazione del proprio essere.
Antonio Ferrante recita Testori, scegliendo E ti vengo a cercare di Battiato come mezzo iniziale per trascinare il pubblico in questo estremo flusso di parole di un attore che in uno scantinato – sotto le travi, gli assi, le quinte di un teatro – si prepara alla morte. Ma cos’è la nostra morte se non il più sincero rito che ci è dato alla conclusione di questo transito terreno? Giacché la vita, quale semplice passaggio, presuppone un suo naturale compimento che si tramuta in uno strenuo tentativo di abbracciare l’infinito, aggrappandosi ad esso per ricomporre in un incanto di pietà e di carità il suo senso.
Di Giovanni Testori ci si ricorda, spesso, della fervente religiosità cattolica alla quale si convertì dopo la morte della madre (nel monologo ampiamente ricordata), vissuta con lacerazione e tormento a causa di una condizione personale ed intima che trasuda nella lingua aulica delle sue opere. Colpisce “Conversazione con la morte” perché, scritta dopo le sue più importanti opere teatrali, suggerisce una profonda corrispondenza fra la morte ed il teatro, come se entrambi fossero riti equivalenti di finitudine corporea entro cui riflettere l’esperienza dell’esistenza umana e la relativa sete d’infinito.
Un attore al quale restano solo gli occhi della memoria dialoga con una platea immaginaria e con una capretta, sulla scena una maschera – forse allusione alla ritualità teatrale greco-arcaica, ma anche umile figura – nell’attesa che la morte lo visiti e lo conduca al cospetto di Dio; nella sua mente si filtra il ricordo degli ardori della gioventù, della morte della madre e del suo mestiere di attore. Ha il sapore di una preghiera rivolta all’Assoluto, come strenua ricerca di quell’Assente assiso al trono celeste, sapore che nella riduzione di Ferrante tende a definirsi più smorzato che però non annulla il forte senso di religiosità.
Tant’è che testi come questo vanno semplicemente ascoltati, quasi ad occhi chiusi, non di certo perché la scena sia scarna, fatta da pochi ed essenzialissimi elementi, quasi una strana novità per noi, perché dando adito al tramestio delle immagini e delle spettacolarizzazioni di ogni sorta di questo nostro vivere contemporaneo, perdiamo l’abitudine di “vedere con il solo udito” e a non riconoscere nelle parole la loro vocazione di preghiera, laica o no poco importa, che cerca di restituire all’anima uno spazio che le spetterebbe.
Viene allora da chiedersi, che cosa può significare ad oggi andare a vedere un’opera di Testori, dedicare del nostro tempo alla sua ricercata lingua, a tratti arcaica, sicuramente fragile fortezza di un’anima peregrina e vagabonda? Cosa possiamo ancora intercettare nel suo sentimento di sentita e lacerante religiosità e nella relazione con un Dio il cui nome è timorosamente invocato?
Antonio Ferrante ci suggerisce una modalità più laica d’incontro con il proprio spirito ed con il bisogno dell’uomo di ritrovare nella morte un pacifico e naturale transito. Resta un’altisonante poeticità nel semplice ascolto del monologante che riporta alla luce un certo teatro di narrazione con il quale l’autore rivendica quasi l’impossibilità di calare nelle regole della drammaturgia e delle scene la sua parola.
Eppure, fra le parole di Giovanni Testori ci siamo stati bene, rincantucciati in una poltroncina del piccolo Elicantropo; una breve oretta di riflessione, di ascolto paziente, a contatto con la necessaria povertà di chi ha solo la parola per condividere qualcosa con il resto dell’umanità. Indipendentemente dai singoli percorsi interiori, ci siamo un po’ tutti “entro la traiettoria del non finibile” nella quale la fisicità del teatro si frantuma, e la parola, unica rimasta, ci suggerisce la ricerca del senso ultimo delle cose.